Editoriali
Oltre il valore commerciale, la sostenibilità ha un prezzo che non si paga in denaro
Attenzione alle manovre di tipo “eco-finanziario”: prendo le perdite di una e le copro con gli utili dell’altra. La sostenibilità ha bisogno di progetti solidi, di investimenti nel lungo termine e di tanta serietà, cosicché poi possa anche diventare messaggio da veicolare al mondo.
12 giugno 2020 | Angelo Bo
Ci siamo lasciati nell’ultimo articolo con il concetto di “sostenibilità responsabile”, ma alcune letture delle ultime settimane e vari stimoli di amici mi hanno portato a fare un passo indietro, perchè ci stiamo rendendo conto che la sostenibilità ha una leva mediatica enorme, se ne parla molto, sono comparsi anche nuovi termini e sempre più spesso sentiamo parlare da un lato di green-marketing, di marketing sostenibile, di marketing ecologico o di environmental marketing e dall’altro di green-washing. Ma cos’è la sostenibilità?? E’ un concetto, che tocca ogni aspetto delle nostre vite, non solo la produzione, è molto ampio e anche molto interpretabile.
Un progetto olivicolo è ovviamente molto articolato e può prendere in considerazione gli aspetti più disparati, se costruito bene dovrebbe poter garantire almeno la sostenibilità economica, agronomica, sociale ed ambientale. Si perché ormai un progetto imprenditoriale è un bene comune che coinvolge, nel bene o nel male, la comunità e l’ambiente che lo circonda.
Negli ultimi decenni è cresciuta in modo esponenziale la coscienza ecologista (qui intesa come rispetto dell’ambiente) dell’opinione pubblica; questa sensibilità è molto sfruttata a livello di marketing, con la declinazione positiva del green marketing e con le sue distorsioni come il green washing ovvero quel fenomeno per cui un’Impresa cerca di ripulirsi l’immagine con un’azione sostenibile che però è solo di facciata.
In questo breve excursus ci concentreremo proprio sugli aspetti ambientali della sostenibilità e per farlo dobbiamo partire dal presupposto che ogni attività dell’uomo ha un impatto sull’ambiente, la cui entità dipende da quanto è profonda, o meno, questa sua “impronta”.
Per comprenderlo dobbiamo prendere in esame il maggior numero di parametri e aspetti possibili, e non, come nel caso del green washing, solo il parametro che da meno problemi, per mitigarlo e far vedere quanto si è bravi con una campagna pubblicitaria, potrebbe infatti essere marginale o quasi inutile prendere in considerazione solo il bilancio della CO2, tralasciando l’uso dell’acqua o l’immissione nell’ambiente di sostanze tossiche.
In alcuni casi vengono create proprio delle “compensazioni”, ossia prendo un progetto impattante che produce una certa quantità di CO2, e creo un bosco compensativo, che fissando CO2 andrà a compensare quella che produce il mio progetto imprenditoriale. E’ palese che in questo caso solo l’emissione di CO2 viene compensata e non tutti gli altri eventuali inquinanti, ma non risolvo il problema, è solo una manovra di tipo “eco-finanziario”: prendo le perdite di una e le copro con gli utili dell’altra, ma non modifico niente a livello strutturale per ridurre le perdite (emissioni di CO2), avremo solo eroso dei possibili “risparmi” (CO2 fissata) che potrebbero essere prodotti dalla parte più virtuosa. Inoltre non ho analizzato tutti gli altri elementi inquinanti che vengono immessi nell’ambiente, di conseguenza il bilancio è solo parziale e falsato.
Un’altra operazione interessante è il cosiddetto “residuo zero” che sta prendendo piede, può rappresentare una tutela del consumatore che acquista un alimento senza residui di prodotti fitosanitari, ed in alcuni casi potrebbe anche essere frutto di una gestione in campo attentissima a reale basso impatto, ma di per se l’assenza nell’alimento di tali prodotti non garantisce che essi o altre sostanze chimiche non siano stati usati nel processo produttivo e quale sia il loro reale impatto sull’ambiente. Per fare un esempio, potrei usare nel processo agricolo prodotti ad alto impatto ambientale con residuo zero nell’alimento.
Per fare un altro esempio molto semplice su come può essere strumentalizzato un termine, possiamo rifarci alle sbandierate scelte di agricoltura integrata, perché dal 2014 il Piano di azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari impone l’adozione da parte di tutte le aziende agricole dell’agricoltura integrata obbligatoria, che o si traduce in qualche disciplinare di agricoltura integrata volontaria e/o con annessi marchi oppure non è niente di più di ciò che fanno tutte le aziende.
La stessa olivicoltura biologica che di per sé ha il massimo obiettivo di ridurre l’impatto ambientale deve essere condotta come un reale cambiamento mentale e di conseguenza gestionale delle colture. Passare all’agricoltura biologica, per conquistare nuovi mercati, con la mente impostata “a quale prodotto uso” come veniva fatto nella vecchia agricoltura convenzionale comporta il rischio di andare incontro a maggiori problemi che richiedono un impronta ambientale molto più pesante di quella che può essere perseguita realmente con l’agricoltura biologica impostata bene.
Nelle scelte vanno valutate tutte le fasi, dalla pianta al confezionamento/etichettatura come alle spedizioni, aspetti questi ultimi che spesso comportano dei problemi completamente differenti da quelli di un’economia di sostentamento in cui l’autoconsumo non creava vuoti a perdere, etichette che non si devono macchiare, costi ecologici di trasporto che aumentano all’aumentare del peso del contenitore.
Rappresenta una scelta di sostenibilità ambientale, o meno, anche spostare le aree di produzione verso quelle vocate alla massimizzazione della produzione con inevitabile abbandono di aree forse più vocate alla qualità ma economicamente più costose. Dobbiamo in questo caso valutare attentamente quale sarà il danno che dovremo affrontare, anche economico, sociale etc, a causa del dissesto che segue l’abbandono. Il vantaggio territoriale di valorizzare le produzioni di quegli “oliveti più difficili” si mostrerà nei decenni futuri come paesaggio e manutenzione del territorio: che rappresentano alcune delle esternalità positive di un attività agricola.
In quest’ottica molti chiedono di allargare le maglie delle regole di produzione, o ampliare i territori di una denominazione di orgine, ma come ci insegnano altri settori questo ci renderà più deboli e meno sostenibili, anzi deve essere chiaro che la strada sostenibile dei disciplinari delle denominazioni di origine o delle certificazioni di prodotto è rappresentata dalla tutela della produzione (proprio di quelle che presentano i costi di produzione maggiori), del territorio e della biodiversità.
In sintesi, da consumatori e addetti del settore dobbiamo prestare molta attenzione alla bontà del progetto ed alla sua reale sostenibilità a tutto tondo, e non lasciarci abbindolare da accattivanti pubblicità che lanciano “svolte verdi” e miracolose ricette, la sostenibilità ha bisogno di progetti solidi, di investimenti nel lungo termine e di tanta serietà, cosicché poi possa anche diventare messaggio da veicolare al mondo.
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