Editoriali

Storytelling? No, meglio raccontar storie

Lo storytelling in campo agricolo e agroalimentare è ormai ridotto a un copia-incolla, a mera cartolina sempre uguale a se stessa. Servirebbe più una traduzione che una narrazione.Chiediamoci per un attimo cosa si aspetta di trovare un consumatore davanti ad una storia di cibo. Le riflessioni di Elisabetta De Blasi

10 agosto 2018 | Elisabetta De Blasi

Nella narrazione si racchiude la capacità di utilizzare espedienti linguistici per trasferire percezioni, informazioni. Chi non è rimasto affascinato dalla storia avvincente raccontata da un libro o da un film, chi non si è sentito partecipe, immedesimandosi in uno dei personaggi, nelle avventure dei protagonisti, per quanto lontani nel tempo o nello spazio.

Oggi sempre più spesso ci si riempie la bocca (perché in effetti è una parola corposa) con un termine che dovrebbe sintetizzare più specificatamente la caratteristica narrativa della comunicazione nel food: lo storytelling. Un termine abbastanza nuovo e già ormai abusato insieme a 'esperienza' ed autenticità' a cui pare essere intimamente correlato. Nella maggior parte dei casi però, quando si parla di storytelling difficilmente ci si trova davanti ad una narrazione che riesce ad esprimere evocazione di sensazioni, ma piuttosto ciò che ne viene fuori è un prodotto povero, che esalta il percorso dell'azienda, della proprietà, del prodotto, scarnificando quegli strumenti linguistici affettivi, impressionisti, figurativi più propri di una scrittura che potrebbe rendere merito a ciò che umanamente cerchiamo in una storia davvero autentica.

Chiediamoci per un attimo cosa si aspetta di trovare un consumatore davanti ad una storia di cibo.

Probabilmente vuole entrare in una passione, in una scelta di vita, vuole dare peso a ciò che spinge quel produttore ad alzarsi presto la mattina, tutte le mattine, a rinunciare alle ferie, a fare della qualità e dell'eccellenza una missione sua e della sua famiglia, magari inseguendo un sogno. Vuole toccarla questa passione, sentire quanto pulsa e che montagne è stata capace di spostare per quel risultato, perché dietro quel prezzo c'è un valore e di quel valore vuole sentire l'odore, assaggiarlo, assorbirne il privilegio della fatica e della ricompensa. Parliamo di sentimenti, di vibranti emozioni, di cose difficili da maneggiare, a volte molto difficili persino da vivere, ma che sono ciò che spinge avanti l'Italia di buona volontà che lotta per salvare un biotipo, una produzione marginale, un desiderio del bisnonno. Un'Italia che cura la memoria e la corrobora con la ricerca e lo sviluppo, un'Italia che vive insieme ai propri collaboratori come una famiglia, e dove spesso non si è persa la cifra che ci rende umani.

Tutto questo portato di umanità, di speranze, di fatiche, di passioni e di visioni è ciò che fa la differenza tra un prodotto industriale e uno artigianale, fa la differenza tra lo standard e l'orgoglio.

Di questo dovrebbe occuparsi lo storytelling, oggi ridotto a mera cartolina sempre uguale a se stessa.

Servirebbe più una traduzione che una narrazione. La traduzione infatti, colta nel suo senso etimologico di trans ducere (portare attraverso) ci può condurre più in là, aprire spazi e scenari imprevisti nei quali chi compra può sentirsi parte, condotto per mano, di una scelta etica o di resistenza gastronomica, può dire a se stesso 'anch'io ho partecipato a mantenere in produzione la carota di Polignano o cece nero liscio di Cassano'. Non bastano slogan che ci informano che è 'il bianco più bianco', si tratta di costruire un percorso in cui chi compra possa spontaneamente dire 'ma allora questo è il bianco più bianco!'.

L'esperienza va vissuta, l'autenticità compresa, la passione percepita e la narrazione più autentica è quella che, in particolare nel cibo che è socialità, antropologia, comunità, politica, tecnica e godimento, riesce a suscitare tutto questo e non solo produrre promozione.

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beatrice ughi

11 agosto 2018 ore 16:36

Bellissimi pensieri. Grazie!