Editoriali
L'agricoltura biologica non è ideologia ma il futuro
Il cibo ottenuto con la chimica di sintesi e sistemi monocolturali intensivi costa apparentemente meno solo perché esternalizza su tutti i consumatori i propri costi ambientali e sociali. L'agricoltura biologica non è filosofia ma coscienza per questo mondo e alta competenza, anche se non è esente da critiche. Le riflessioni di Paolo Carnemolla, Presidente Federbio
23 marzo 2018 | Paolo Carnemolla
Sono un agronomo, uno di quei pochi che in tempi non sospetti scelse di occuparsi di agricoltura biologica per il semplice motivo che mi appariva il modo migliore per applicare ciò che avevo studiato con passione e impegno, senza dover dipendere nella mia professione da “calendari” di gestione del suolo e delle colture decisi da altri e finalizzati a massimizzare anzitutto il profitto certo dei produttori dei mezzi tecnici.
E questo con meno attenzione al reddito degli agricoltori e scarsissima attenzione agli impatti sull’ambiente e sulla salute di operatori e cittadini, che non solo mangiano ciò che l’agricoltura produce, ma bevono anche l’acqua e respirano l’aria che, soprattutto in alcuni territori e periodi dell’anno, sono altamente contaminati dalla chimica di sintesi, come da anni dimostrano i dati di ISPRA.
La mia attività professionale nel settore biologico è iniziata nel 1991, quando l’Unione Europea emanò il Reg. CEE n. 2092/1991. Nulla d’ideologico o mistico, ma concreta e severa realtà normativa e tecnica per imprese agricole, allevamenti e industria agroalimentare, con tutti i limiti della mancanza di ricerca e di esperienza consolidata, soprattutto nella nostra realtà mediterranea, tuttavia la più vocata per un’agricoltura che fa dell’agroecologia la sua base. Quell’agroecologia che ora stanno riscoprendo in molti, anche chi non vuole smettere di utilizzare glifosato (e altri erbicidi) o OGM, finalmente consapevole dei danni creati dalla monocoltura e dalla semplificazione estrema degli ambienti agrari tanto care ai venditori di chimica e di cavalli vapore.
Fa dunque semplicemente sorridere leggere gli appassionati sfoghi di colleghi ormai pensionati, dopo una vita dedicata a fare i commessi viaggiatori per imprese sementiere o dell’agrochimica, che si ostinano a ignorare la realtà dei fatti e a tentare di trascinare il settore biologico sul piano di una polemica ideologica che è solo nella loro testa, completamente rivolta all’indietro e fuori dal pianeta in cui viviamo. La realtà oggettiva e incontestabile è che anche nel 2018 l’agricoltura biologica è l’unica forma di agricoltura sostenibile con dignità di legge nell’Unione europea, con tanto di norme tecniche, di etichettatura e di certificazione di processo agricolo, zootecnico e agroindustriale. Sono i governi dei Paesi UE e la Commissione europea che le hanno stabilite e codificate, come per l’unico altro sistema di qualità regolamentata certificata esistenti nell’UE (DOP/IGP). Altrettanto è avvenuto negli USA, in Cina e nella grande maggioranza dei Paesi del pianeta dove si pratica un’agricoltura avanzata e che vivono nella dimensione moderna del mercato.
Se una critica può essere mossa a questo processo di normazione e regolazione dei mercati è, eventualmente, che la componente ideale e filosofica è scemata a favore di un approccio tecnico e scientifico rigoroso e a volte non così coerente con i principi. Ciò premesso, il costo del cibo si può calcolare in tanti modi, di certo quello del cibo ottenuto con la chimica di sintesi e sistemi monocolturali intensivi costa apparentemente meno solo perché esternalizza su tutti i consumatori i propri costi ambientali e sociali. Per fare un’agricoltura biologica efficiente anche sul piano delle rese e del reddito degli agricoltori non servono una laurea in filosofia, la militanza in sette esoteriche o movimenti ideologici, ma robuste conoscenze agronomiche e una notevole professionalità. Nell’agricoltura biologica non ci sono “calendari” o “bollettini” di trattamento, linee tecniche standard e sementi tossicodipendenti che deresponsabilizzano tecnici e agricoltori e consentono di rimediare a mancanze o errori in campagna o in stalla, sfruttando al massimo la nutrizione e la protezione artificiali delle colture per ottenere prodotti con molta acqua e tessuti e assai pochi nutrienti essenziali. Del resto perché l’economia circolare cara all’industria chimica/farmaceutico/sementiera funzioni, mangiare alimenti davvero sani e nutrienti, vivendo in un ambiente pulito, non è strettamente necessario, anzi.
Insomma, noi tecnici e i tanti agricoltori e imprenditori che in questi anni hanno investito in miglioramento delle conoscenze e delle tecniche avremmo necessità, da parte dei colleghi più anziani e delle Università, non di dispute su chi produce più chili di mele per pianta, ma di uno sforzo corale per percorrere al meglio e il più velocemente la strada della conversione all’agricoltura biologica dell’agricoltura italiana. Che, per sua natura e per vocazione dei suoi addetti, non può che andare in questa direzione, magari producendo qualcosa meno per unità di superficie per singola coltura, ma assai di più in termini di biomassa e di beni comuni nella dimensione pluriennale di una rotazione (obbligatoria), a cominciare dal sequestro di carbonio, dalla tutela della biodiversità e della qualità delle acque, dal miglioramento della qualità nutrizionale degli alimenti, del benessere e del reddito degli agricoltori e delle comunità rurali.
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