Editoriali
Il cibo che divide gli uomini
24 luglio 2015 | Alberto Grimelli
E' certamente raccapricciante, per un cristiano e un occidentale, vedere cani essere cucinati e serviti, come avvenuto per il festival di Yiulin, in Cina.
E' certamente raccapricciante, per un induista e un indiano, vedere mucche e, per un islamista e un ebreo, vedere maiali essere cucinati e serviti sulle nostre tavole quotidianamente.
Il mondo è diventato globale.
Circolano con una velocità estrema merci e informazioni.
Tutto ci sembra più vicino ma appena ci avviciniamo all'etica, alla morale e all'insieme dei nostri valori culturali, ecco che tutto diventa molto più locale.
Le sensibilità cambiano, come gli usi e i costumi.
Le nostre stesse tradizioni ci impediscono di condannare la mattanza dei tonni nel mar Mediterraneo ma di usare i toni più duri, anche sottoscrivendo petizioni on line, contro quelle di balene o delfini nell'Oceano Pacifico.
La verità è che il mondo non è ancora tanto globale quanto viene descritto.
Assaggiamo con curiosità la cucina etnica di paesi esotici ma poi ci mancano i nostri gusti e sapori.
Ma il mondo corre e con il passaggio delle generazioni, quei gusti e quei sapori si affievoliscono.
Ci pensano McDonald's e Coca Cola a riempire gli stomaci ma che dire del nostro spirito?
L'alimentazione, nella storia dell'umanità, non è mai stata solo nutrizione, ovvero soddisfacimento di un puro bisogno materiale, ma ha sempre avuto una forte connessione con la componente spirituale, tanto che le religioni hanno spesso adottato precetti “dietetici”.
La legge sulla purità nell'ebraismo impedisce loro di mangiare crostacei, maiale, cammello, lepri e insetti. Anche nella Bibbia esiste un un elenco di animali di cui non ci si può cibare ma l'interpretazione data successivamente dalla Chiesa Cattolica annullò ogni divieto, rimanendo solo quello dell'ingordigia, punita come peccato capitale. Nell'Islam sono vietate le carni dei maiali, delle bestie feroci, dei rapaci, dei cani, degli asini, dei muli, dei rettili, dei topi, delle rane e delle formiche. Il buddismo proibisce di cibarsi di altre forme di vita, quindi di tutti gli animali.
L’atto di alimentarsi è un atto sacro in tutte le religioni.
Da qui nascono anche inaspettate analogie tra le varie fedi. L'espressione buddista “si deve ricevere il cibo con pensiero grato” si adatta perfettamente anche al mondo cristiano.
Tutte le principali religioni considerano il cibo un dono del divino o della natura. Ecco perchè, attraverso la celebrazione del cibo, quotidianamente e nei giorni di festa, invitano implicitamente a non ridurre i pasti a una successione di gesti automatici.
Se vi è consapevolezza, l'alimentazione non è solo nutrizione.
Quello che la globalizzazione, e le sue nuove liturgie, ci sta facendo dimenticare è la stretta correlazione tra la natura e l'alimentazione. Lo yogurt non viene più dal latte di una mucca ma dal banco frigo di un supermercato.
Ridurre l'alimentazione a nutrizione non è solo un impoverimento ma un vero e proprio corto circuito culturale.
Ci ricordiamo di condannare il festival del cane di Yiulin, rimarcando così le differenze, ma dimentichiamo il precetto fondamentale che accomuna tutte le religioni: la sacralità del cibo, la sacralità della natura, la sacralità dell'uomo che della natura è una parte.
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Francesco Donadini
25 luglio 2015 ore 09:24complimenti, concordo con l'analisi e l'importanza conseguente del nostro "percepire" il cibo come "sacro". L'impegno che abbiamo è di far sì che questa consapevolezza, peraltro ribadita da moltissimi testi e ricerche della stessa FAO, organismo autorevolissimo, arrivi nelle teste del Mipaaf e dei governanti per evitare la progressiva lenta, non percepita, distruzione dell'ecosistema umano e terrestre. Questi pensieri vitali, per il sistema delle multinazionali, della finanza e del falso mito del progresso vengono bollati come oscurantismo. Il mercato senza regole è un mercato stupido, senza futuro, favorisce l'oggi distruggendo il domani, eppure finora solo un capo di stato "particolare" come il papa ha avuto il coraggio di presentarlo e ribadirlo. Negli scritti dei G7, G8, G20 non c'è traccia di tale sensibilità e capacità di visione corretta delle cose e dell'evoluzione sostenibile del pianeta.