Editoriali

Quando il nemico è in casa

14 marzo 2014 | Alberto Grimelli

L'Italian sounding danneggia il nostro Paese.

Tutta colpa di spregiudicati imprenditori esteri oppure c'è anche lo zampino, più o meno consapevole, di nostri connazionali?

Sulla ribalta della cronaca giornalistica recentemente sono apparsi due casi, diversi, diversissimi ma forse con qualche minimo comun denominatore.

C'è il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano che presiedeva (si è dimesso dopo lo scandalo mediatico) la Itaca Società Cooperativa, la quale possiederebbe il 100% dell'ungherese Magjar Sajt Kft, che vende simil parmigiano reggiano (parmesan) in giro per il mondo. Giuseppe Alai si è difeso asserendo che si trattava solo di un’operazione finanziaria.

C'è poi il caso di una joint venture italo-indiana, tra la Dalmia Continental e la Pantaleo Spa. Le due società insieme hanno creato un marchio per vendere oli d'oliva in India. Con questo marchio, Leonardo, che rievoca immediatamente il maestro fiorentino, non è stato venduto solo extra vergine Made in Italy. Dopo un periodo di florida crescita del mercato indiano, appena accusati i primi sintomi di stanchezza, il brand Leonardo è stato ceduto all'americana Cargill per 16 milioni di dollari, secondo quanto riferito dall'Ansa.

Non voglio disquisire sulla legalità o liceità di queste operazioni.

La domanda che mi faccio è diversa. Dove finisce l'interesse privato e inizia quello pubblico? Kant lo disse meglio: “la mia libertà finisce quando inizia la tua.”

Il problema è quindi d'ordine etico, morale e persino filosofico.

Se è vera l'asserzione iniziale, ovvero che l'Italian sounding danneggia il nostro Paese, è lecito chiedersi se l'immagine nazionale è stata ferita da operazioni imprenditoriali o speculative che ricordano e rimandano all'Italia.

La Itaca Società Cooperativa è stata quantomeno incauta nel dare il via libera all'acquisizione di quote della Magjar Sajt Kft senza conoscere o prevedere tutti i possibili risvolti per un territorio e un prodotto che è la bandiera del Made in Italy agroalimentare nel mondo.

Che dire invece di un imprenditore, VN Dalmia, che nel 2012 chiese all'India di poter apporre sulle etichette di olio lampante, venduto col marchio Leonardo, i claims salutistici “aiuta a combattere il colesterolo e le malattie cardiovascolari” o “abbassa la pressione arteriosa” e persino “combatte il cancro”? Ricordo che l'olio lampante non è considerato commestibile dall'uomo in nessuno dei paesi aderenti al Coi (Consiglio oleicolo internazionale). L'India, però, non fa parte del Coi. Il signor Dalmia, in società con l'italiana Pantaleo Spa, lo ha potuto quindi vendere ai poveri indiani in bottiglia, col marchio Leonardo. Ha anche cercato di conferirgli un valore aggiunto salutistico, per fortuna negato dall'Advertising Standards Council of India. Tale personaggio ha persino dichiarato che il contenuto di tocoferoli è più alto nell'olio lampante che nell'extra vergine, provocando l'immediata reazione del Coi. L'Italia della qualità, la culla dell'olivicoltura mediterranea, la patria dell'extra vergine d'eccellenza ha bandito VN Dalmia? No, è stato addirittura premiato a Milano nel 2013 per “il suo lodevole impegno, sia come persona sensibile nel promuovere un sistema produttivo, sia nel sensibilizzare i consumi di oli di oliva in India.”

Cosa devono pensare all'estero?

Da una parte sbraitiamo contro l'Italian sounding, invocando regole più stringenti e maggiori controlli. Dall'altra non solo lo utilizziamo per fare profitti ma siamo persino arrivati a glorificarlo.

E poi abbiamo anche il coraggio di scandalizzarci di fronte a sfottò come quello del New York Times all'olio “italiano”? Con quale credibilità?

Prima di cercare la pagliuzza nell'occhio altrui forse è bene guardare alla trave nel nostro.

Il “nemico” lo abbiamo in casa.

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Diana Malcangi

17 marzo 2014 ore 21:31

Bell'articolo, complimenti! I "nemici", i parassiti, li abbiamo in casa, è vero. Ma è anche vero che la fama dell'Italia (sfruttata dai parassiti di cui sopra) è nata ed è cresciuta nel tempo grazie a chi ha lavorato seriamente, applicando il massimo della qualità in tutte le fasi, e ha consentito all'Italia di conquistare l'etichetta più famosa al mondo, "made in Italy". L'Italia è il paese dei grandi artigiani e delle menti eccelse, ma allo stesso tempo dei furbetti e dei parassiti, quelli che sfruttano il lavoro degli altri. Screditare questi soggetti (e al contempo allenare il pubblico a riconoscere e pretendere la qualità) è l'unico modo per combatterli. Invece inserire regole ancora più severe di quelle attuali servirebbe solo a limitare inutilmente chi lavora seriamente.

angelo minguzzi

16 marzo 2014 ore 22:24

eh si, era proprio troppo ermetica e non è stata capita.
mi sembra che la faccenda stia prendendo una piega che con l'etica ci ha poco a che fare. E quindi andrà chiarita: non può certo finire così. Per la sopravvivenza dello stesso Teatro Naturale. Per adesso mi fermo qui: e aspetto di vedere se ci sono altri contributi.

NICOLA BOVOLI

16 marzo 2014 ore 00:17

E' certo che sono da condannare entrambi ma almeno loro non dichiarano di essere produttori onesti ma solo "oliandoli" che cercano di fare olio per soldi. Molto più condannabile è invece chi li ha premiati per ingraziarseli e ricevere il loro obolo. Giuda, al confronto, era un dilettante!

Romano Satolli

15 marzo 2014 ore 18:49

Per me sono entrambi da condannare. Sono personaggi che, pur di speculare sui nostri prodotti, pur di fare soldi, non si vergognano di infangare e danneggiare i nostri produttori onesti. A questi aggiungerei anche l'allora presidente (non so se lo sia ancora) presidente del pecorino sardo che, grazie ai contributi del nostro Ministero dell'Agricoltura aprì un caseificio in Romania dove, con latte di pecore rumene e bulgare produce formaggi venduti con nomi di fantasia italiani. A chi lo accusava di questa attività ebbe la faccia tosta di dire: però non produciamo formaggi con la denominazione della dop italiana. Era da premiare per la sua sensibilità? Però non ha spiegato perchè, formaggi prodotti in Romania, venivano venduti nei Pesi dell'Est Europa ed esportati anche in altri Paesi extracomunitari. Una cosa è certa: l'ipocrisia di certa gente raggiunge limiti un tempo impensabili!

angelo minguzzi

15 marzo 2014 ore 18:45

è proprio qiuestione di etica ... ma, detta così, forse è troppo ermetica

Alberto Grimelli

15 marzo 2014 ore 12:07

Il "benefattore" dell'olio premiato a Milano non è la ditta Pantaleo ma direttamente VN Dalmia, patron di Dalmia Continental.
Per ulteriori dettagli su questa premiazione consiglio la lettura dei seguenti articoli:
- http://www.olivomatto.it/2013/06/in-india-batte-un-cuore-oliandolo/
- http://issuu.com/ingeniadirect/docs/am8-2013/56
La foto nel primo articolo è piuttosto esautiva e risponde pienamente alla sua domanda su chi ha premiato Mr Dalmia per la motivazione riportata nell'articolo.
Faccio notare che la premiazione, nel 2013, è avvenuta dopo che, nel 2012, Mr Dalmia ha chiesto le diciture salutistiche per l'olio lampante, venduto in India.
Spero di aver così risposto esaurientemente alle sue domande.

NICOLA BOVOLI

15 marzo 2014 ore 11:57

MI GARBEREBBE SAPERE:
CHI ha premiato a Milano nel 2013 un tale benefattore?
Chi può considerare Pantaleo un benefattore dell'Olio per “il suo lodevole impegno, sia come persona sensibile nel promuovere un sistema produttivo, sia nel sensibilizzare i consumi di oli di oliva in India.”?

Alberto Grimelli

15 marzo 2014 ore 11:55

Personalmente ho compreso benissimo quel che vuol dire. L'eccessivo protezionismo fa morire qualsiasi economia ma anche un eccessivo liberismo. La regolazione del mercato è tema complesso e molto sensibile.
Al di là delle leggi, però, dovrebbe esistere un'etica imprenditoriale che credo sia andata smarrita, non solo in Italia, in nome del profitto. Occorre riportare al centro dell'economia le persone, siano essi imprenditori o consumatori. Questa è per me la vera rivoluzione culturale del III millennio.

Amedeo Alpi

15 marzo 2014 ore 10:51

Caro Grimelli, ciò che ha scritto è sacrosanto e molto condivisibile da parte mia. Mi faccia però dire una cosa in modo molto sintetico: i birbanti vanno scovati e sottoposti alle regole previste dai nostri codici, ma di un eccesso di "italian sounding" si può morire. Spero di essere compreso senza tante noiose spiegazioni.