Editoriali
La ricerca olivicola e oleicola italiana è viva
18 ottobre 2013 | Gianfrancesco Montedoro
Il consumo dell’olio di oliva nel suo complesso, da anni segue un trend in aumento. Paesi emergenti come la Cina, l’India ed il Brasile ma anche Russia e Stati uniti di America nell’ambito delle sostanze grasse alimentari aumentano notevolmente la quota dell’olio di oliva. Nell’ottica dei quantitativi stabili di olio di oliva nei paesi tradizionali consumatori, tale tendenza resta una via preferenziale per la valorizzazione e lo sviluppo del settore nel bacino mediterraneo e in particolare in Italia rappresentando questo paese il secondo esportatore a livello mondiale, dopo la Spagna .
Quali sono le ragioni che supportano questa tendenza? Le acquisizioni scientifiche che sono ormai alla portata dei media circa l’attività di prevenzione esercitata dall’olio di oliva sui alcune patologie cronico degenerative; malattie che si stanno diffondendo nei paesi citati. Accanto a questo aspetto altri con riguardo alle caratteristiche organolettiche destano l’attenzione dei consumatori di quei paesi come il caso degli “oli di oliva” per la leggerezza e la neutralità organolettiche che li distingue e li fa preferire ad altre materie grasse tradizionalmente consumate in questi paesi.
Questa evoluzione soddisfa completamente le esigenze di bilancio e di sviluppo del settore in Italia? In linea di massima la risposta poggia su due considerazioni: una grossa fetta dell’olio esportato non è prodotto in Italia ma acquistato da paesi terzi (ad esempio Tunisia); la concorrenza che in questo ambito commerciale viene imposta da altri paesi mediterranei (Spagna) comporta, in generale un livello dei prezzi non sempre remunerativi. Queste considerazioni valgono anche per il mercato europeo e nazionale.
Dunque quali tendenze per la nostra produzione? Come in altre occasioni evidenziato o rimarcato lo “stato quo” della nostra olivicoltura è caratterizzato da due diverse situazioni: quella tipica tradizionale impostata su un sistema varietale e di forme di allevamento dell’olivo in situazioni ambientali che possono garantire elevati standard qualitativi del prodotto ma anche elevati costi di produzione; l’altra invece in fase di ristrutturazione e di completa innovazione condizionata tuttavia da un sistema varietale alloctono che non garantisce il conseguimento di certi standard qualitativi (oli di massa)ma allo stesso tempo consente di ridurre notevolmente i costi di produzione. Tutto ciò connesso con la necessità di introdurre forti interventi di meccanizzazione.
I risultati conseguibili perseguendo i due percorsi non possono prescindere dalla disponibilità di risorse soprattutto pubbliche da investire nella ricerca. Sono note da tempo le tematiche sulle quali sono già state avviate alcune attività finalizzate ad individuare nuovi modelli di impianto e tecniche culturali sfruttando ovviamente tutti gli input possibili derivanti dalla genomica ma anche approfondimenti sull’irrigazione, sulle esigenze minerali e tecniche di concimazione, sulla lotta contro i principali patogeni ( innovando i modelli di difesa verso i principali fitofagi e relativi metodi di controllo integrato), migliorare i mezzi e sistemi di meccanizzazione dell’oliveto adattando le forme della chioma . Per quanto concerne il frutto almeno due aspetti possono essere ricordati quello riguardante la sua trasformazione andando più in profondità sulle conoscenze biochimiche e biotecnologiche e la loro ricaduta sui sistemi e le variabili di processo da una parte, approfondendo allo stesso tempo le ricerche preliminari sul recupero e la utilizzazione e valorizzazione delle sanse vergini e delle acque di vegetazione.
Preme infine spostare l’attenzione sulla ricerca o le ricerche relative al valore nutrizionale dell’olio di oliva e la sua attività nella prevenzione di alcune patologie ( invecchiamento, apparato cardiovascolare e tumori). Infine tutelare maggiormente gli oli con elevati contenuti di componenti biologicamente attivi fissando norme di tracciabilità a tutela del consumatore che richiede prodotti che rispondano a criteri di elevati standard organolettici e salutistici.
A conclusione preme far presente o meglio ricordare ancora che lo sforzo che la ricerca puòfornire nel dare risposte alla domanda o alle domande esposte possano trovare una concreta ricaduta solo a condizione che anche il modello di classificazione così come è posto possa essere sostanzialmente riveduto e corretto introducendo nell’ambito degli extra vergini anche quelli classificabili come al “extra vergini di alta qualità”. L’idea emersa che quest’ultima possibile menzione possa essere in contrasto con gli oli DOP è sostanzialmente priva di senso pratico normativo I primi infatti dovrebbero soddisfare, per i loro contenuti in componenti minori, esigenze salutistiche ed organolettiche indipendentemente dall’origine territoriale; i secondi come vuole tutta la prassi anche burocratica seguita per il loro riconoscimento devono soddisfare solo esigenze peculiari che nulla hanno a che vedere con gli aspetti salutistici, legate alle varietà, al territorio, alle tecnologie di campo e di frantoio previste appunto dai disciplinari di produzione. Due ambiti qualitativi del tutto diversi da un punto di vista anche della composizione chimica.
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