Italia
Fermare la prevaricazione a danno degli agricoltori per salvare il cibo italiano
Bene l'export di Made in Italy ma solo salvaguardando la materia prima nazionale. In assenza di politiche agricole adeguate, agli agricoltori non resta che affidarsi al Km0 che garantisce più elevati valori aggiunti del prodotto. Continuando così avremmo filiere "sgangherate" e "insicure" per il futuro
07 ottobre 2016 | Franco Scaramuzzi
Il nostro Paese non può che esprimere soddisfazione sentendo ripetere che sono in crescita le esportazioni di prodotti alimentari "Made in Italy" elaborati dalle filiere o dalle industrie.
Ma ci accorgiamo che stiamo diventando anche più grandi importatori di prodotti agricoli primari, cioè dell'unica vera fonte di tutti i nostri alimenti.
Mentre l'olivicoltura italiana, bloccata e paralizzata dalla pretesa di voler conservare gli attuali paesaggi agricoli, avrebbe già ridotto le proprie produzioni di almeno 1/3. Nel 2015 abbiamo importato oltre 500 milioni di chili di olio dichiarati (non sempre) extra vergini (da Spagna, Grecia, Tunisia, ecc.), mentre la nostra produzione nazionale forse non ha superato neppure i 300 milioni di chili. Quelle importazioni sono fonti di un gran numero di frodi. Si calcola che nel 2015 siano quadruplicate contraffazioni, falsificazioni, adulterazioni, ecc. Spesso sono facilmente riconoscibili, sopratutto nei casi in cui una bottiglia di olio extra vergine etichettata viene posta in vendita a prezzi inferiori alla metà di quelli che sono gli oneri di produzione che i nostri agricoltori devono sostenere. Non occorrerebbe neppure una analisi quando il prezzo rivela chiaramente che il prodotto non può essere quello che si intendeva acquistare. I giornali divulgano che tre contenitori su quattro contengono oli importati e miscelati. Nei luoghi di vendita, oli imbottigliati ed etichettati sono manomessi almeno in 2 bottiglie su 3.
L'agricoltura subisce queste crescenti difficoltà anche per altri prodotti agricoli primari, quali i grani, il cui prezzo in un anno è crollato oltre il 40% per il grano duro da pasta e del 20% per quello tenero da panificare. Attualmente, gli agricoltori sono stati pagati con non più di 18 centesimi al chilogrammo per quello duro e di 16 centesimi per quello tenero. Prezzi che sono ampiamente al di sotto dei nostri costi di produzione (da La Nazione del 29 settembre 2016).
Le "filiere" agroalimentari, cioè quelle cosiddette "dal campo al consumatore", al termine della annuale vendita finale incassano somme che comprendono valori aggiunti non indifferenti (ossia un reddito complessivo e crescente della filiera) che sarebbe quindi equo ripartire ragionevolmente, in accordo fra tutte le imprese coinvolte.
Se gli agricoltori continuassero invece ad essere prevaricati, tanto da vedersi costretti a non seminare neppure, la filiera risulterebbe sgangherata ed insicura in un futuro destinato a cambiare. I nostri agricoltori hanno ragione di pretendere che l'antico e apprezzato marchio "Made in Italy" rimanga comunque legato alle sue tradizionali origini, cioè quali prodotti primari genuini che la nostra agricoltura ha visto sempre apprezzare.
Sarebbe giusto citare anche le crescenti importazioni di altri prodotti alimentari primari, a cominciare dal latte.
Già da molti anni i Georgofili hanno evidenziato queste esigenze. Ma hanno anche segnalato la debolezza politica che rischia di rendere succubi le imprese agricole rispetto ad altre più compatte e unite in una sola organizzazione rappresentativa.
E' comprensibile che questi processi di adeguamento strutturale non siano facili, in quanto sostenuti da forti interessi, anche personali e illegittimi. Non si può comunque continuare sulla strada che è stata intrapresa, senza alcun intervento riparatore, che sia coraggioso e responsabile.
Fonte: Accademia dei Georgofili - georgofili.info
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