Cultura

Le etichette? Spesso confondono anziché chiarire

Biologico, extra vergine, certificazioni di qualità. La concorrenza migliora la qualità? I fatti dimostrano che non sempre è così Alcuni spunti sulla difficoltà e sul senso di tutte le forme di etichettatura e classificazione dei prodotti in commercio

05 dicembre 2009 | Daniele Bordoni



Tutto o quasi è etichettato o codificato, ma non solo in termini di prezzo o di tipo di prodotto, ma anche come marchio, come firma, come appartenenza o origine e sempre più spesso come filiera di produzione.

Questo non significa che il marchio o l’etichetta siano un male. Al contrario possono essere utilissime per far riconoscere prodotti di bassa qualità fatti con lo scopo di ingannare il consumatore, facendogli credere che compra un buon prodotto e finendo per screditare anche i prodotti buoni.

C’è un limite alla codifica? Va veramente tutto etichettato o codificato? Fino a dove è lecito garantire un contenuto?

Siamo sommersi dai codici a barre, a noi incomprensibili, videocamere che ci riprendono pressoché ovunque, ogni nostro movimento di denaro con carte di credito o prelievi bancomat è monitorato.
In un ambito parallelo, scegliamo marchi di famosi “fashion maker” per abiti, profumi, accessori, pagandoli di più proprio perché sono “marchiati”, senza guardare alla qualità del prodotto, ma quasi esclusivamente al nome.

L’assurdo è che pubblicizziamo il nome, non solo gratuitamente, ma addirittura paghiamo in più, spesso anche il doppio, invece di beneficiare di uno sconto. In un certo qual modo possiamo dire che ci fa piacere essere “riconosciuti” e identificati col prodotto stesso.

Anche “ecologico” o “biologico” sono etichette, etichette d’elite, per giunta, che applicate permettono un sovraccarico del prezzo. È curioso che un’etichettatura del tipo “prodotto da agricoltura biologica” non susciti nessuna reazione. Ma l’alternativa cosa sarebbe: “prodotto da agricoltura chimica”? E l’alternativa a “ecologico” cosa dovrebbe essere, “inquinante”? Per non parlare degli oli d’oliva “extra-vergine”, in cui l’aggettivo vergine dovrebbe bastare, ma quell’extra testimonia una oggettiva difficoltà ad attribuire un’alta qualità ad un prodotto che, per definizione dovrebbe essere “vergine” e basta..

Il linguaggio e il suo uso sono importanti segni della deriva qualitativa del consumo alimentare, ma la stessa cosa si applica al consumo tout court, di qualsiasi prodotto. Gli esempi sono numerosissimi e basta leggere qualche etichetta per interrogarsi sui contenuti reali di qualsiasi prodotto.

Negli alimentari i conservanti, i coloranti, gli aromatizzanti standardizzano e omogeneizzano i prodotti rendendoli tutti simili. Anche nei prodotti di consumo non alimentare è difficile districarsi. Vale per i cellulari, per i PC, per i telefoni, per le TV e persino per le auto. Colori e forme sono simili, spersonalizzate. Non si cerca la distinzione, se non in qualche piccolo accessorio, ma la somiglianza.

Si potrebbe obiettare che la varietà offre comunque una scelta, che prima era inferiore o non c’era e che la concorrenza migliora la qualità. I fatti dimostrano che non sempre è così. Talvolta, tra ditte serie questo stimolo esiste, ma molto spesso la confusione creata da un numero crescente di concorrenti sleali è alta e l’infinita serie di cose simili di medio-bassa qualità a basso prezzo, coinvolge anche i prodotti buoni, danneggiando economicamente le ditte produttrici, compromettendone l’immagine.

Ci sono poi le certificazioni di qualità, che assumono un ruolo importante, anche se non del tutto decisivo, che garantiscono un percorso dettato da rigorosi disciplinari di produzione.
La conseguenza è comunque un prezzo elevato del prodotto che comporta anche un onere supplementare per il produttore. Si tratta di un problema culturale. Non ci sarebbe bisogno di Doc, Dop o Igp se la cultura alimentare fosse tutta “onesta”. Qualcuno mi ha detto che tutto l’olio d’oliva per alimentazione dovrebbe essere tutto “biologico” e non dovrebbe essere necessario doverlo indicare in etichetta. Non solo. Ma ce la vedete una massaia leggere tutti i dettagli di un prodotto, che ricordano le clausole di un contratto d’assicurazione o quelle per l’apertura di un conto corrente?

È difficile districarsi tra etichette che spesso confondono invece di chiarire. Ci sono adempimenti di legge, è vero, ma fra poco non rimarrà neppure lo spazio per il nome del prodotto.
Le etichette vanno bene se non fanno perdere di vista i contenuti e le conseguenze del loro uso, sepolto tra codici a barre, liste di ingredienti in sette o otto lingue, rimandi a sopra o sotto la confezione e simboli vari di oscuro significato.

Una parte di responsabilità è anche del consumatore, che si è troppo bene adattato alla standardizzazione e omogeneizzazione dei prodotti che un giorno ho sentito una signora rifiutare l’acquisto di una confezione di latte intero fresco di montagna che costava molto meno di quello di altre marche in commercio, perché dopo averlo provato, lei stessa aveva commentato che “sapeva troppo di latte”. Un difetto imperdonabile!
Molto meglio pagare il doppio, per un tipo di latte che “non sapesse di latte.”

Si è forse perso il filo anche del gusto. La frutta, le mele, le pere, le banane, persino l’insalata vengono etichettate con il marchio di ditte produttrici. In realtà il vero produttore è la terra, le ditte sono per l’esattezza “coltivatrici”. Nella cultura largamente diffusa oggi, i due termini sono pressoché sovrapposti, al punto che chiedendo a un bimbo dei nostri giorni da dove viene il latte e chi lo fa, lui o lei ci risponderà sicuro, “il supermercato” o nella migliore delle ipotesi “la Centrale del Latte” e certamente non la mucca.

La comodità nel trovare i prodotti anche fuori stagione ha un prezzo: serre, coltivazioni intensive, super sfruttamento della terra, il prezzo del trasporto da un lato all’altro del pianeta ed il conseguente inquinamento che ne deriva. Oggi si parla e giustamente di produzione a chilometro zero, come fondamentale per un corretto rapporto con l’ambiente. Pure fondamentale è il seguire il prodotto alimentare di stagione, con minori costi, anche ambientali per tutti. Se si supera il concetto che in ogni caso si trova una qualche marca che produce qualsiasi cosa in qualsiasi momento dell’anno, si inizierà ad andare nella direzione giusta.