Cultura

PAPA BENEDETTO XVI SPIAZZA TUTTI, CON LA REINTRODUZIONE DELLA MESSA IN LATINO. SI TRATTA DI UN PASSO AVANTI O INDIETRO?

I nostalgici del'antico rito non si sono mai rassegnati, anzi, in taluni casi si sono addirittura ribellati alla riforma operata dal Concilio Vaticano II, arrivando anche alla rottura con la Chiesa di Roma

21 luglio 2007 | Sante Ambrosi

Il sette Luglio di quest’anno è stata pubblicata la lettera Motu proprio di Benedetto XVI sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata dopo il Concilio Vaticano II nel 1970. Con questa lettera viene concessa ampia possibilità di usare nelle celebrazioni liturgiche della santa Messa il messale romano secondo la riforma tridentina, rivista nel 1962 dall’allora Pontefice Giovanni XXII. Si tratta, quindi, di una aperta legittimazione dell’uso del rito romano in lingua latina.

La cosa ha suscitato le più svariate reazioni e i commenti più divergenti.
Ci sono quelli che non hanno mai digerito la Messa nelle lingue volgari, perché a loro dire e sentire le lingue volgari, come l’Italiano, non possono stare alla pari della lingua latina, soprattutto se teniamo conto dei canti liturgici del Gregoriano, che hanno espresso una religiosità che difficilmente è ripetibile.

Pensiamo ai lunghi secoli di tradizioni gloriose in monasteri, in abbazie o nelle grandi cattedrali. Un patrimonio senza dubbio straordinario. E poi la lingua latina, con la sua elevatezza di precisione e di ricchezza espressiva, quale si è formata dalla tradizione dell’antica Roma e da una storia medievale lunga e ricca. Per questo, costoro pensano che non possa essere sostituita la lingua latina con una qualsiasi, più pratica e alla mano, ma più povera. Questi nostalgici del latino non si sono mai rassegnati, anzi, in taluni casi si sono addirittura ribellati alla riforma operata dal Concilio Vaticano II, arrivando anche alla rottura con la Chiesa di Roma.

Il Sommo Pontefice ha senz’altro tenuto conto di questa frattura e l’intento primario della nuova disposizione dovrebbe essere quello di tentare di ricomporre tali fratture o venire incontro a desideri difficilmente placabili con le liturgie in lingua volgare. Si tratta, come dice nella lettera di presentazione lo stesso Papa di creare le condizioni migliori per una unità autentica all’interno del modo cattolico.

Sul fronte opposto ci sono state reazioni completamente critiche nei confronti di questa nuova riforma. La si è letta come un ritorno al passato, un segno di una inversione di tendenza nella guida della Chiesa: invece di avanzare nel dialogo con gli uomini del nostro tempo anche con l’uso della lingua parlata, si fa marcia indietro, arroccandosi su un passato sia pur glorioso, ma sempre passato.

Che dire di fronte a due posizioni così contrapposte?
Si può tranquillamente dire che il desiderio di avere e partecipare ad una messa in latino è pienamente legittimo. Ma non tanto perché il latino sia da considerare come l’unico modo di poter degnamente pregare, ma perché la liturgia latina offre certamente, se vissuta con spirito corretto, un’esperienza di preghiere veramente eccezionale. Fare in modo che questa ricca spiritualità possa essere vissuta anche dall’uomo contemporaneo costituisce un fatto positivo non solo per il discorso dell’unità del mondo cattolico, ma perché è la cosa in sé bella e le cose belle bisogna far in modo che non vengano disperse e dimenticate.

Come la musica di un Bach viene continuamente ascoltata e goduta non solo per un legame assoluto a quel tipo di musica, ma per riviverne i sentimenti e il fascino trascinante dell’autore, così deve essere anche per la messa in latino.
Però certe dispute sull’unicità e sul valore assoluto del latino fanno pensare alle dispute che nel trecento e nel quattrocento si facevano sull’uso della lingua volgare per la poesia. Si pensava, e tra questi anche il Petrarca, che non ci potesse essere vera poesia se non in latino. Le cose sono poi andate come sappiamo: le lingue volgari si sono imposte e hanno creato opere che non sono da meno di quelle degli autori latini. Lo stesso Dante ha dovuto scrivere un’opera intera, il De vulgari eloquentia per dimostrare che le lingue nascono , muoiono e si rinnovano continuamente. E le nuove lingue sono opera creativa dell’uomo. Tutte hanno pari diritti purché facciano tesoro del passato e si arricchiscano, diventino, appunto, anch’esse illustri e capaci di esprimere l’indicibile.

Il ritorno al latino è dunque un pieno diritto per tener viva una ricchezza autentica e di valore universale, ma senza rifiutare o sminuire la liturgia nelle lingua volgari.
Anzi, possiamo dire che deve diventare uno stimolo alle liturgie in volgare, per arricchirsi a sua volta, assimilando sempre più profondamente quella spiritualità e quell’arte musicale connessa a tale liturgia. Anche perché certe liturgie in lingua volgare sono troppo sciatte, male recitate, con canti molto spesso banali e vuoti di spirito.

Anche per questo, la riforma del Papa può essere un’occasione propizia per un forte impulso ad un miglioramento e nei contenuti e nella forma.

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