Cultura
Un tocco d'italianità, perchè vino e olio non devono farsi la guerra
L'agricoltura industriale è stata dichiarata fallimentare dalla stessa Fao ma c'è chi continua a perseverare. Occorre far vivere la cultura e l’immagine dei due testimoni, l’olio e il vino, i più significativi dei mille e mille territori che caratterizzano il nostro Paese
07 dicembre 2018 | Pasquale Di Lena
Quale promotore e organizzatore a Siena dell’idea di Elio Archimede, l’Associazione Nazionale delle Città del Vino, e quale ideatore , promotore e organizzatore, nel mio Molise, a Larino, dell’Associazione Nazionale delle Città dell’Olio, non posso che applaudire quello che ieri, 7 dicembre 2018, è avvenuto a Carpino, in provincia di Foggia, con la firma, da parte dei due presidenti, Froriano Zambon e Enrico Lupi, del Protocollo d’intesa tra le due Associazioni, che nei 31 anni di vita, la prima, e, nei 24 la seconda, hanno dato un contributo notevole alla crescita della cultura e dell’olio, affermando ancor più il ruolo di testimoni dei territori più belli e più noti, che i due principali prodotti delle colture arboree della nostra agricoltura vanno svolgendo, sempre più con grande affermazione.
Ai presidenti di queste due realtà ed a quanti, con essi, hanno collaborato nel corso di questi anni, va un grande applauso nel segno di un riconoscimento per i tanti risultati ottenuti, soprattutto se si pensa al vuoto politico con la mancanza di una programmazione dell’agricoltura e di piani di comparto e strategie, in particolare quella di marketing, che ha reso impossibile altri risultati. Un vuoto che ha impoverito i territori e i produttori, tutto a vantaggio di agricolture e prodotti di altri Paesi. Territori e produttori, entrambi vittime di quella scelta insensata - sulla spinta del neoliberismo e degli interessi delle multinazionali, soprattutto della chimica, dell’industria meccanica e farmaceutica - di introdurre e rendere vincolante quell’agricoltura industrializzata che, avendo come solo fine la quantità, ha intaccato e messo a rischio l’origine della qualità, che è sempre stata, ed è, il territorio con l’apporto dell’intelligenza e memoria dei nostri bravi produttori.
Un’agricoltura che ha prodotto e, nonostante la dichiarazione del suo fallimento da parte della Fao continua a produrre ovunque solo disastri, non ultimo quello dell’abbandono, sia dei territori che dell’attività primaria, l’agricoltura. Proprio ora che c’è bisogno di uno sviluppo all’insegna della sostenibilità, di un nuovo modo di fare agricoltura e produrre cibo biologico di qualità, quali risposte ai cambiamenti climatici, al bisogno di salute e di benessere dei consumatori, alla sicurezza e alla sovranità alimentare; alla salute ed alla sicurezza dei territori, essenziali fonti di turismi possibili.
Il gruppo dirigente e politico di questo Paese continua a camminare con la testa rivolta all’indietro e così ad inciampare e a perdere tempo e occasioni, volendo con testardaggine, ripercorrere le stesse strade che hanno portato alla crisi dell’agricoltura, nel 2004, ed a quella del 2007/8 che ha riguardato l’economia nel suo complesso. Un atteggiamento diabolico che porterà presto a raccogliere cocci, ancor più di prima.
Penso all’introduzione dell’oliveto superintensivo marchio spagnolo, che non ha niente a che fare con le nostre colline; le nostre tradizioni legate all’olivicoltura; il bisogno di fertilità dei terreni e non di depauperamento; l’uso accorto di una preziosità sempre più rara, l’acqua; la possibilità di spendere il più ricco patrimonio al mondo di biodiversità per rendere ancor più preziosi e ricercati i nostri oli.
E, se penso alla chiusura definitiva dell’Ente Mostra Vini- Enoteca italiana di Siena, la culla delle due associazioni d’identità, mi rendo conto che ci si accontenta di una domanda di vino, di olio o altro prodotto, che arriva spontaneamente, e non di quella arricchita da attente nostre strategie messe nelle mani di strumenti adeguati e strutture attrezzate, soprattutto di professionalità. Strategie, strutture e strumenti capaci di ottenere risultati esaltanti, come quelli della Sopexa per i vini francesi o, sempre in Francia, di quelli dati dai vini della Provenza, che, grazie a un’attenta azione di marketing, ha, in meno di dieci anni, registrato un aumento del suo export del 1.000% (negli Usa addirittura 4.000%) con i produttori che investono ogni anno 3 milioni di euro per la promozione e valorizzazione.
Come non pensare, poi, all’attenzione crescente della Spagna per la promozione del suo olio e, mentre in Italia si dà spazio, alle sue varietà per oliveti superintensivi, per me – ripeto - fuori luogo e fuori tempo, c’è chi in quel Paese - che fra poco ci sorpasserà, anche con la viticoltura - vuole le nostre varietà per diversificare di più le produzioni di olio spagnolo e dare ad esso, com’è già stato con le nostre più grandi stabilenti oleari, un tocco d’italianità per carpire la fama della qualità riconosciuta ai nostri oli.
Ecco perché applaudo il Protocollo d’intesa fra le due Associazioni e tutto quello che le stesse hanno realizzato in questi ultimi tre decenni, contribuendo, soprattutto, a far vivere la cultura e l’immagine dei due testimoni, l’olio e il vino, i più significativi dei mille e mille territori che caratterizzano il nostro Paese.
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