Mondo Enoico

Il mondo etrusco nel bicchiere

Chi ha detto che la storia non serva al presente e al futuro. Nella Maremma Grossetana i progetti di ricerca Vinum, Archeovino e Senarum Vinea, condotti sul campo dall’Università di Siena, hanno dato utili riscontri

11 febbraio 2012 | Nicola Dal Falco

«È possibile che nell’attuale vegetazione dell’Etruria, in particolare nella fascia tirrenica della Toscana e del Lazio settentrionale, siano sopravvissuti lembi del paesaggio vegetale etrusco»?

Questa è la domanda che si sono posti Andrea Ciacci e Andrea Zifferero, docenti del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. Domanda lampante che ha il pregio di riunire il passato e il presente non solo attraverso la scoperta e lo studio di architetture, di oggetti o di ossa, ma di farci percepire la continuità spaziale e la forza vitale del concetto, forse troppo scolarizzato, di storia.

Uno scavo o un museo rappresentano già delle esperienze forti, interrogative, che nel caso del paesaggio e delle sue forme viventi diventano addirittura uniche.

Capaci, insomma, di creare quella vertigine che accompagna, passo dopo passo, il processo di conoscenza e quello connesso di memoria.

Il progetto Vinum, nato nel 2004, con una visione multidisciplinare che affianca all’archeologia, la botanica e la biologia molecolare, punta a dimostrare quanto e come le popolazioni superstiti di vite selvatica siano imparentate con piante di età molto antica.

«Dal punto di vista paleobotanico – sostengono i due studiosi - il recente ritrovamento di vinaccioli di vite silvestre in siti della media età del Bronzo associati a vinaccioli più vicini, sotto il profilo morfologico, alla vite coltivata, evidenzia la presenza di una vitivinicoltura arcaica in area tirrenica.

«Uno dei postulati del progetto ha tentato di istituire un collegamento tra la difficile, ma oggi non più impossibile caratterizzazione del DNA dei reperti paleobotanici con il germoplasma della vite selvatica attuale».

Le ricerche si sono concentrate intorno ai siti archeologici etruschi e romani dove emergevano importanti indizi legati alla vitivinicoltura: «trincee di coltivazione della vite, palmenti, abbondanza di contenitori per la conservazione e il trasporto del vino».

Prelevando il germoplasma dalle infiorescenze e dalle foglie apicali delle piante risulterebbe che la diversa caratterizzazione genetica sia attribuibile alle varie fasi di domesticazione delle specie da parte delle comunità residenti.

Contemporaneamente, osservando il portamento della viti selvatiche, abbarbicate agli alberi, si è approfondita l’evoluzione del vigneto etrusco, mettendolo in relazione con le antiche tecniche di coltivazione superstiti, ancora visibili in Italia, sia di derivazione etrusca come in Romagna e nel Casertano dove i tralci si sviluppano in altezza, sposandosi al pioppo, sia più squisitamente greche, presenti nell’isola del Giglio e in Sicilia.

In quest’ultimi casi, per l’Ansonica/Inzolia, che non si eleva troppo da terra, geneticamente vicino ai vitigni greci Roditis e Sideritis, giunti probabilmente nella penisola con la colonizzazione euboica nell’VIII secolo a.C., perdura l’uso di graticci di canne.

Dal progetto Vinum ne sono scaturiti altri due che circoscrivono precise aree geografiche.

 

La valle dell’Albegna

Il primo, ArcheoVino, in collaborazione con il comune di Scansano, nella Maremma grossetana, interessa la località Ghiaccio Forte e gli insediamenti etruschi e romani tra la valle d’Albegna e il fosso Sanguinaio, dove potrebbe sorgere un parco a tema, il cui principale richiamo sarà la produzione di un vino quotidiano non troppo distante dal più remoto genius loci e dalle originarie possibilità dei produttori etruschi.

Il secondo, battezzato Senarum Vinea, che partendo dagli orti dentro e fuori le mura di Siena, servirà a mappare i vitigni minori e autoctoni, miracolosamente sopravvissuti in un tessuto urbano alla massificazione e omologazione agricola, contribuendo così a salvare un frammento di biodiversità.

La valle dell’Albegna ha avuto ed ha tuttora un’importante vocazione vitivinicola. Un tempo, il vino, grazie alle rotte commerciali che facevano capo al golfo di Talamone, era anche venduto a Liguri e Celti, ed oggi la tenuta di Marsiliana, proprietà dei Principi Corsini, oltre a produrre da vigneti recentemente impiantati, conserva importanti necropoli, scavate fin dai tempi di Don Tommaso Corsini che vi scoprì l’omonima fibula, rinvenuta in una tomba non lontana dal colle del Castello.

In questo lembo di terra, paragonabile, dal punto di vista archeologico ed agricolo, ad un vero e proprio palinsesto, sono stati individuati due esemplari di vite selvatica che presentano notevoli analogie genetiche e morfologiche con il sangiovese e il canaiolo nero.

La scoperta, avvenuta battendo palmo a palmo le aree boscose e umide intorno ai siti, autorizza a pensare che la campagna di Scansano fu uno dei teatri naturali in cui prese avvio la domesticazione della vite.

Un lungo processo che ha inizio nell’età del Bronzo, quando vengono individuate delle piante, generate dai semi dispersi negli

immondezzai dei villaggi agricoli e che prosegue, successivamente, tra il X e il VI secolo a. C., con una selezione continua, legata alla produttività e alla qualità.

In base ai dati raccolti, intorno all’VIII secolo a. C., la produzione di vino diventa centrale per l’economia della valle dell’Albegna, che si trova nell’area di influenza di Vulci.

 

Il tumulo 6 di Macchia Buia

A questo proposito è sicuramente indicativa la scoperta, avvenuta ad ottobre del 2011, del tumulo 6 nella necropoli di Macchia Buia, Durante gli scavi nella tenuta del Principe Corsini, effettuati durante il III Campo Internazionale di Ricerca Archeologica, condotto dalla Associazione Etruria Nova Onlus, sotto la direzione di Andrea Camilli, dirigente della Soprintendenza archeologica della Toscana e di Andrea Zifferero, professore dell’Università di Siena.

All’interno della sepoltura, inquadrabile in quel periodo, sono stati rinvenuti i resti di un individuo dalla corporatura massiccia, avvolto in uno stretto sudario e probabilmente adagiato su un letto basso, il cui scheletro si presentava in discreto stato di conservazione.

Le analisi di questi resti sono state affidate a Stefano Ricci, docente dell’Università di Siena, che procederà anche ad una ricostruzione dei dettagli del volto.

Ai piedi del defunto sono stati rinvenuti i resti di un secchio che contiene ancora uno strato di materia bianca, il cui contenuto verrà analizzato nei prossimi mesi.

Accanto sono state, poi, scoperte delle tazze da vino in ceramica nera che, al momento della chiusura del tumulo, dovevano essere appese lungo una delle pareti della camera.

Ma il dettaglio più emozionante del tumulo 6 di Macchiabuia, già depredato dagli scavatori clandestini, sono le due coppe trovate all’altezza della mano destra.

Il defunto avrebbe continuato a libare agli dei e a se stesso anche nell’aldilà.

 

 

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