L'arca olearia

L'attuale classificazione degli oli di oliva inganna il consumatore

Olio di oliva è la denominazione giusta per l’intero mondo legato all’olivicoltura e all’olio, quella che può ridare a questo principe di tutti i grassi la sua dignità, e, con essa, la possibilità di tornare a vivere un rapporto diretto con il consumatore

10 gennaio 2018 | Pasquale Di Lena

Perché l’olio di girasole è olio ricavato dai semi di girasole e l’olio di palma è quello ricavato dai frutti delle palme? E perché l’olio di oliva non è quello ricavato dalla spremitura delle olive, ma solamente un olio composto di oli di oliva raffinato e oli di oliva vergini?

Perché l’olio di girasole è olio di girasole e l’olio di palma è olio di palma, così come gli altri oli estratti da un seme o un frutto, diversamente da quello di oliva che, in base al Reg. CEE 1513/01, è così classificato ?
1. Oli di oliva vergini – quelli ottenuti del frutto dell’olivo soltanto mediante processi meccanici:
a. Olio Extravergine di Oliva – acidità libera max 0,8%
b. Olio di oliva vergine - “ “ “ 2%
c. Olio di Oliva vergine Lampante - “ ” “ maggiore di 2$
2. Olio di Oliva Raffinato
3. Olio di Oliva, quello ottenuto dalla miscela di olio di oliva raffinato e olio vergine
4. Olio di Sansa di Oliva Greggio

La risposta è semplice: il 97% degli oli vegetali, sono ottenuti da un’agricoltura industrializzata e dall’industria di trasformazione, entrambe, nella generalità dei casi, nelle mani di multinazionali che controllano anche il mercato, mentre il rimanente 3%, rappresentato dagli oli di oliva, con l’extravergine che conta solo per il 3%, è, anche, nelle mani di una miriade di produttori agricoli e trasformatori, molti dei quali piccoli e indifesi. Restano tali anche quando sono organizzati in OP (Organizzazioni di Produttori, o, in cooperative, che, nella quasi generalità, sono – come le cantine sociali di un tempo - serbatoi per l’industria e il commercio.

Una filiera, quella dell’olio di oliva, comunque dominata – per colpa di una realtà produttiva divisa, frammentata - dall’industria e dal commercio, che, come si sa, hanno sempre guardato alla quantità più che alla qualità, certamente non alla possibilità di dare una risposta ai territori di origine e, con essi, ai produttori, soprattutto se coltivatori.

L’olivicoltura, soprattutto quella italiana, è la rappresentazione più chiara della crisi che vive l’agricoltura, soprattutto quella contadina, dominata dalle multinazionali in mancanza di una sua reale e vera rappresentanza.

Paga questa situazione l’agricoltura italiana e la sua olivicoltura sparsa su territori spesso marginali. Paga la biodiversità olivicola, e, pagano un prezzo molto alto anche il paesaggio, la storia, la cultura e le tradizioni legate a questa coltivazione.

Paga il consumatore, ancora oggi più confuso che mai dal regolamento sopra riportato, che, anche la migliore delle etichette riesce a spiegare solo in parte, quando e se viene letta. Anche qui, puzza la frenesia e l’auto applauso di chi della promozione di etichettature ne ha fatto ormai una professione, anche quando non servono o non sono necessarie. Non c’è etichetta migliore e più trasparente di una corretta informazione e una corretta educazione , sia del produttore e/o trasformatore che del consumatore.

La verità è che questo gran da fare serve solo a mantenere in piedi e ad affermare il regolamento sopra riportato, che fa della classificazione dell’olio il quadro più “lampante” per confondere le idee del consumatore.

Un regolamento che, alla luce delle novità proprie del mercato dell’olio, non conviene mantenere in piedi, visto che può essere d’intralcio agli stessi promotori e sostenitori di un tempo.

In pratica quel 3% di olio che ha origini dalle olive dell’olivo, la pianta mediterranea per eccellenza, è un fastidio solo per chi ha in mano e controlla i grassi, soprattutto la massa enorme di oli vegetali. Non a caso, per eliminare questo fastidio, il tentativo in atto è la diffusione degli oliveti super intensivi, l’espianto degli olivi secolari, la marginalizzazione e la scomparsa del’olivicoltura contadina. Un tentativo che creerà solo problemi a olivicolture come quella italiana, così ricca della qualità dell’origine e di biodiversità, due aspetti strategici per il mercato, soprattutto futuro dell’olio di oliva extravergine. Un tentativo, però, che andrà in porto solo se avrà successo il processo di uniformità in atto portato avanti da chi governa il mondo. Se questo succederà, nessun problema, visto che a quel punto saremo numeri, atti a mantenere in piedi solo istituti di statistiche e strumenti di calcolo, non più persone che hanno il pregio di pensare e ragionare, e, ancor più, di sognare; nutrirsi di cibo che anima il convivio ed ha la capacità di raccontare territori ricchi di splendidi paesaggi, tante storie, culture e belle tradizioni .

L’olio di oliva è la denominazione giusta per l’intero mondo legato all’olivicoltura e all’olio, quella che può ridare a questo principe di tutti i grassi la sua dignità, e, con essa, la possibilità di tornare a vivere un rapporto diretto con il consumatore, lasciando alle specificazioni e sottospecificazioni lo spazio necessario per indicare che sono sottoprodotti, anch’essi utili, che animano un mercato da non confondere con quello proprio dell’olio di oliva.

L’olio di oliva, il grasso vegetale che, con il suo profumo e il suo sapore, racconta il frutto dal quale viene estratto, la campagna intorno agli olivi, con i suoi fiori, le erbe e gli ortaggi.

Racconta anche, con la sua indicazione di origine, dop o Igp, il territorio; con la sostenibilità, il suo essere bio, e, grazie al ricco patrimonio di varietà autoctone, la diversità. Sta qui il futuro dell’olio di oliva italiano, e, con esso, quello dell’agricoltura, soprattutto delle regioni de Sud, dell’Appennino e delle aree interne.

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