L'arca olearia

I promoter degli oliveti superintensivi in Italia

Quali e quanti risultati hanno portato, per i redditi degli agricoltori, le soluzioni delle grandi multinazionali? Meno pubblicità e più dignità al ruolo che deve svolgere, se si vuole davvero dare basi e forza all’olivicoltura di domani

25 novembre 2016 | Pasquale Di Lena

Quello che dà fastidio dei sostenitori degli oliveti super intensivi è che si trasformano – non so quanto a loro insaputa – in veri e propri promotori pubblicitari di queste nuove forme d’impianto.

Raccontano – lo sottolineano con forza – che danno qualità e, con essa, anche più quantità; permettono la piena meccanizzazione e una riduzione della presenza dell’uomo; danno una sicura risposta di reddito all’olivicoltore, che, suo malgrado, fino ad ha subito lo strapotere degli altri interlocutori componenti della filiera dell’olivo e dell’olio.

In pratica dicono le stesse cose che sono state dette tutte le volte che una multinazionale ha pensato di promuovere i suoi semi, le sue varietà, i suoi antiparassitari, i suoi veleni e i suoi servizi, grazie a macchine e mezzi potenti. Tutto all’insegna della scienza, della tecnologia e del progresso (parole magiche come riforma, cambiamento), con fiori di tecnici e organizzazioni al servizio di questi munifici benefattori rappresentanti di multinazionali.

Poi, salvo a verificare, nell’arco breve di tempo, che i grandi – molti addirittura miracolosi – risultati si sono trasformati in una grande fregatura per il mondo agricolo e i tanti territori italiani. Soprattutto per ciò che riguarda la salvaguardia della fertilità della terra, la salute dell’ambiente e dello stesso paesaggio, la tenuta dell’azienda coltivatrice e il reddito. Una frana, quest’ultimo, grazie alla bella e buona propaganda di soggetti che si sono camuffati da assistenti tecnici per non apparire puri e semplici venditori.

La dimostrazione di questi pessimi risultati? Sono tutti in quella crisi dell’agricoltura, scoppiata nel 2004 con quattro anni di anticipo di fronte a quella economica complessiva, che sta facendo apparire illustri economisti, vivi sostenitori del sistema e, come tali, soggetti davvero pericolosi per l’intera umanità. Quali sono questi risultati? Meno reddito e più voglia di scappare dei protagonisti di sempre, i coltivatori; meno ricambio generazionale; meno cibo sano; meno terreno fertile; meno cultura, meno territorio, meno occupazione, meno reddito anche per altri soggetti, ciò che vuol dire più povertà, più rischi per tutti, meno domani per i più. In sintesi, meno agricoltura, nel momento in cui di quest’attività (per me) ancora primaria se ne ha più bisogno (più cibo, più ambiente, più paesaggio, più ruralità). Farebbero bene questi illustri economisti, che assistono i governi e le multinazionali, a convincersi che l’agricoltura è il solo perno utilizzabile se si vuole rimettere in movimento la ruota di un’economia sostenibile, la sola possibile.

E così molte delle iniziative che, soprattutto in questi ultimi tempi si vanno prendendo, sono delle vere e proprie passerelle, non direttamente promosse dalle multinazionali, ma, per loro conto, dalle organizzazioni che rappresentano gli olivicoltori, la gran parte dei quali legati a un’olivicoltura tradizionale. Un elemento davvero fastidioso quello di sapere che a guardia del pollaio ci sono le volpi, e, ancor più, quando a svolgere questo ruolo è lo “scienziato” e, spesso, anche ricercatore e professore universitario. Come a dire la “scienza”, la ricerca, la sperimentazione e la stessa formazione al servizio di qualcuno e non al disopra delle parti. Ed è quest’atteggiamento quello che a me dà più fastidio proprio perché porta a radicalizzare sempre più i miei dubbi e a renderli quasi verità, fino a dire No a oliveti superintensivi. Non è, per me, in discussione la qualità dell’olio, sapendo da sempre, grazie ai miei tanti e bravi maestri, che essa è nell’origine, ma la diversità, o meglio, la biodiversità olivicola. Non dicono che sono solo quattro tre o quattro le varietà utilizzate, la gran parte spagnole. Tre o quattro di fronte a un patrimonio straordinario che vede l’Italia olivicola primeggiare con oltre cinquecento varietà autoctone, quasi il doppio della biodiversità olivicola mondiale. Un elemento quest’ultimo che, se ben inserito dentro una puntuale e attenta strategia di marketing, può fare davvero la differenza sui mercati, in un momento in cui la diffusione della cultura dell’olio porta il consumatore a scegliere non più semplicemente l’olio evo, ma gli oli evo per i differenti caratteri organolettici e degustativi e le possibilità di abbinamento ai vari e diversi piatti.

Non è neanche il bisogno di quantità di olio evo in discussione, visto che ci sarebbe la necessità di raddoppiare la superficie olivetata per rispondere alla domanda interna e alle necessità dell’export, ma la spaccatura profonda tra i territori invece che a una loro tenuta e continuità per un rilancio, mediante l’espansione dell’olivicoltura di superfici enormi di terreno, altrimenti marginalizzati. Meno pubblicità, quindi e più dignità al ruolo che deve svolgere, se si vuole davvero dare basi e forza all’olivicoltura di domani.

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