L'arca olearia

La Calabria oleicola si muove: basta aiuti a pioggia, è ora di pensare al mercato

La seconda Regione olivicola italiana si interroga e si dibatte tra continuare a produrre un extra vergine commodity e cambiare faccia. L'Igp è un punto di partenza per il lancio di un'area con molte potenzialità inespresse

02 aprile 2015 | Alberto Grimelli

Doveva essere un convegno dedicato alla presentazione dell'Igp Olio di Calabria quello del 30 marzo scorso.

In realtà è stato un momento di incontro e confronto sul futuro olivicolo della Regione, piegata, come buona parte d'Italia, da un'annata disastrosa e da un futuro incerto.

Come ricordato dal Direttore del Dipartimento di Agraria di Reggio Calabria, Giuseppe Zimbalatti, la nuova Pac, che interessa anche il settore olivicolo, abbandona completamente i criteri storici. Finiranno e saranno quindi fortemente ridimensionati gli aiuti che hanno permesso, nel bene e nel male, il mantenimento di un'olivicoltura di sussistenza, spesso antieconomica, dalla forte connotazione sociale e ambientale ma spesso completamente svincolata dal mercato. “Credo che vi sia ormai la consapevolezza – ha dichiarato Zimbalatti – che d'ora in poi l'azienda olivicola deve organizzarsi. Non può più permettersi il lusso di trattare l'olio come una commodity.”

Ma può una Regione con 180 mila ettari olivetati pensare di produrre solo oli di nicchia? Può ancora permettersi di mantenere la sua olivicoltura, con boschi di olivi secolari? Questi gli interrogativi posti dalla foltissima platea, più di 350 gli operatori che si sono registrati al convegno.

Domande legittime che indicano da una parte la consapevolezza del momento storico di rottura col passato e di un futuro tutto da delineare, e dall'altra l'attaccamento a modelli imprenditoriali consolidati: quantità e bassi costi.

Rinnovare gli oliveti è un passaggio necessario ma bisogna anche essere consapevoli che in Italia non si raggiungeranno mai i costi di produzione che si possono avere in Spagna, tantomeno in Tunisia o Marocco. Non è solo una questione agronomica ma di organizzazione dell'intera filiera, comprese frangitura e stoccaggio. Come competere con olivicolture che riescono a produrre un chilo di olio a 1,2 euro?

“Le parole d'ordine per l'olivicoltura italiana del futuro – ha dichiarato Maurizio Servili dell'Università di Perugia – devono essere differenziazione e innovazione. Senza questi passaggi non è scontato che la filiera olivicola italiana abbia un futuro. Ma le carte da giocare l'Italia le ha. Gli oli italiani mediamente contengono il 75% di acido oleico. Oli di altri continenti hanno valori intorno al 60%, simili a quelli di un olio di arachidi. Non solo, gli oli italiani, in media, contengono 450 mg/kg di fenoli bioattivi, il doppio della media mondiale. Questo deve essere il punto di partenza.”

Non è un caso allora che proprio il contenuto minimo di acido oleico e quello in polifenoli siano capisaldi dell'olio Igp di Calabria.

“Con questo disciplinare e con il nostro extra vergine certificato – ha dichiarato Massimino Magliocchi, presidente del comitato promotore dell'Igp e del Consorzio – vogliamo smentire con i fatti la cattiva nomea che circonda l'olio italiano e quello calabrese in particolare. Abbiamo la necessità di mostrare l'alta qualità.”

Un marchio unico, con il simbolo della Calabria, forse ancor più conosciuto del nome stesso della Regione: i Bronzi di Riace. Un marchio che unisce, anche se non esiste un'unica Calabria olivicola.

“Cambiano varietà, ambienti e territori – ha spiegato Marco Poiana dell'Università di Reggio Calabria – Tutto questo influisce sui parametri qualitativi. Nell'area del reggino abbiamo oli con tocoferoli mediamente più elevati rispetto all'area di Lamezia Terme. In questa zona, però, grazie alla Carole abbiamo oli con contenuti più elevati di acido eptadecenoico. Elevata è l'influenza della varietà. La Geracese, diffusa in provincia di Reggio Calabria, ha i valori più bassi di acido oleico rispetto alle altre cultivar regionali.”

Un panorama variegato. Allora ha un senso un unico marchio per una tale ricchezza e biodiversità?

“I marchi oggi devono essere medium narranti di un prodotto – ha dichiarato Antonio Schiavelli, amministratore delegato Consorzio Sibarit – utili alla segmentazione e alla percezione della qualità. Solo l'aspetto salutistico non ha un traino di marketing, occorre aggiungere aspetti emozionali legati a un territorio conosciuto e riconosciuto nell'immaginario collettivo. Questa è la Calabria. Solo così si può smontare la competizione sul prezzo. L'extra vergine Igp di Calabria deve essere contraddistinto da una dimensione elitaria, non dieta quotidiana ma prestigio del consumo.”

L'Igp di Calabria è un punto di partenza. Un buon disciplinare di produzione, per garantire credibilità al prodotto. Un marchio famoso e molto “georeferenziato”. La partita è però tutta da giocare sui mercati internazionali perchè, come ha ricordato il Magnifico Rettore dell'Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci: “non si deve parlare di rilancio ma di lancio della Calabria. Vi sono potenzialità mai espresse da questa Regione.”

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