Bio e Natura
Un esperimento sociale pericoloso escludere la carne dalla dieta
Secondo l'Università di Bruxelles un mondo totalmente vegano verrebbe molto facilmente monopolizzato dalle multinazionali andando verso un’alimentazione industrializzata e fatta di prodotti iper-processati
08 settembre 2020 | C. S.
Gli alimenti di origine animale hanno sempre avuto una posizione chiave nella dieta dell’uomo, ma le nuove idee sul cibo che si stanno diffondendo oggi stanno creando una profonda trasformazione sociale. Il professor Frédéric Leroy della Facoltà di Scienze e Bio-Ingegneria dell’Università di Bruxelles, analizza insieme ad Adele H. Hite e Pablo Gregorini in un nuovo studio (“Livestock in Evolving Foodscapes and Thoughtscapes“) come verrà risolto lo scontro attuale tra un desiderio di carne biosociale e le linee di pensiero moderne che ritraggono invece l’allevamento del bestiame come dannoso per l’uomo, per il benessere degli animali stessi e per il pianeta. Riportiamo una sintesi dello studio pubblicata dal portale carnisostenibili.it.
Lo studio offre risposte concrete ad alcune domande attuali, prospettando diversi scenari futuri: è giusto uccidere ancora gli animali per cibarsi di carne? È vero che per il bene nostro e del pianeta dovremmo diventare tutti vegani? Qual è il futuro della zootecnia? Secondo gli studiosi non ci sono dubbi: da quando è nato l’uomo sulla Terra la carne è sempre stata necessaria per la sua sopravvivenza ed evoluzione. Senza carne ci saremmo sicuramente estinti. Il rapporto col bestiame ha subito però una profonda trasformazione nel corso del tempo. A cominciare da quando l’uomo era organizzato in comunità di cacciatori-raccoglitori, la carne è stata la forma prevalente di sostentamento umano, con l’uccisione come punto focale, a cui poi è seguita una transizione verso l’agricoltura, la domesticazione e l’allevamento degli animali.
Il XIX secolo, caratterizzato dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione, specialmente delle società occidentali e anglosassoni, ha portato allo sviluppo di un sistema agroalimentare moderno che ha determinato un progressivo aumento dell’approvvigionamento di carne. Questo ha migliorato il benessere e sconfitto la denutrizione delle classi meno agiate, che avevano scarso accesso ai cibi di origine animale e alla carne, considerato un prodotto di gran valore riservato all’élite.
Oggi però si vede l’emergere di varie minacce globali, come la crisi della salute pubblica, il cambiamento climatico, le pandemie e i dubbi sull’impatto che la produzione animale ha sull’ambiente, sulla salute dell’uomo e sul benessere animale. Si assiste ad una presa di posizione che si riflette sul modo di alimentarsi, sempre più orientato verso un ritorno al cibo “naturale”, biologico e libero di additivi. Molto di questo deriva dall’ansia delle classi medie di mostrarsi o sentirsi “virtuose”. Leroy parla anche della nascita di una nuova “sensibilità” nelle giovani generazioni non abituate per cultura all’uccisione degli animali, che anzi oggi vengono eccessivamente antropomorfizzati, con la fantasia che prende il posto della realtà: da qui nasce il forte disagio odierno, che fa provare addirittura disgusto verso la carne, vista come “pezzi di cadavere”.
Nello studio sono stati descritti a proposito due scenari estremi: il primo è appunto un modello sociale vegano che auspica la totale abolizione dell’allevamento del bestiame, con il bisogno di riconnettersi alla natura e sentirsi parte di essa. Il secondo scenario comporta invece un profondo ripensamento del modo di allevare gli animali, con un approccio più “olistico” che coinvolge sistemi agro-ecologici e rapporti più armonici tra uomo, animali e ambiente.
Se si realizzasse lo scenario vegano, secondo gli autori, si avrebbero vaste e disastrose implicazioni sull’organizzazione sociale: piuttosto che condurre ad uno stile di vita sano, si rischia infatti che venga monopolizzato da interessi di multinazionali, come succede in realtà già attualmente con società che producono sostitutivi della carne che porterebbe verso un’alimentazione artificiale, fortemente industrializzata e fatta di prodotti “fake” iper-processati.
Anche riguardo all’impatto ambientale dell’allevamento, gli studiosi spiegano che seppur reale e problematico in alcuni casi può essere ancora ampiamente mitigato, riconoscendo il ruolo fondamentale del pascolo ben gestito nei servizi ecosistemici, nello sviluppo rurale e nella salute, aiutando a preservare habitat di alto valore e la biodiversità, a migliorare il suolo, la crescita della vegetazione e la ritenzione dell’acqua, il riciclo dei nutrienti, il sequestro del carbonio e il benessere animale.
Il potenziale di miglioramento con gli animali in allevamento secondo gli autori è altissimo, con strategie attive come l’agricoltura rigenerativa, il pascolo ben gestito, il recupero degli scarti di cibo, un miglior riciclaggio e integrazione dei rifiuti nella bioeconomia circolare, miglioramento dell’assistenza veterinaria e della salute degli animali. Non è chiaro in quale direzione si evolverà l’attuale produzione zootecnica, ma gli autori dello studio sono risoluti: è improbabile che una di queste due scenari opposti accada. Il futuro più probabile vede un mosaico di pratiche più comuni, che spaziano tra opzioni “vegetali” e l’allevamento degli animali come parte della soluzione e non al centro del problema, basato su forti principi agro-ecologici. Piuttosto che parlare di totale abolizione dell’allevamento o di drastiche riduzioni della carne dalla nostra dieta, la via più saggia da seguire è quella di fare sempre “più del nostro meglio”.
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