Bio e Natura
La guerra del grano oggi sarà la guerra del pane di domani?
Non solo, anche un esempio delle storture delle filiere agroalimentari con l’industria e il commercio che approfittano di un produttore indifeso. E così l’agricoltura muore e i custodi dell’ambiente e del paesaggio, produttori di cibo di qualità, vengono costretti ad abbandonare la terra, quella terra che per loro e per i loro padri, è sempre stata sacra
07 luglio 2016 | Pasquale Di Lena
La situazione che vive il mercato del grano è solo la più attuale, visto che, già qualche tempo fa, è stata identica quella delle arance pagate non più di 10 centesimi a chilo da un grossista che paga dopo sei mesi se non un anno, compra sulla pianta e se non vende gli ettari non raccolti vanno a pesare sulle tasche del produttore. A pagare è il produttore e non solo, anche la società con la diffusione del lavoro nero, il caporalato e la criminalità organizzata, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che torna peggio di un tempo. E, se le cose non cambiano, sarà così anche per l’imminente campagna di pomodoro, del vino, dell’olio.
Una situazione sempre più drammatica di un mondo, quello contadino, che rischia di cedere definitivamente e di abbandonare. Per l’Italia quest’abbandono vuol dire la riduzione ai minimi termini, se non la fine, dell’agricoltura contadina, e, con essa, la fine di un mondo di valori come la ruralità, la diversità e biodiversità, la qualità, la sostenibilità. Nell’arco di qualche anno, a perdere sarà l’intero settore dell’agroalimentare, che, come si sa, vive della fama, nel mondo, della qualità e delle peculiarità del cibo italiano; dei primati, europei e mondiali, grazie alle sue eccellenze Dop e Igp, alle produzioni tipiche tradizionali, alla biodiversità olivicola, viticola e orticola; ai mille e mille territori che, da nord a sud, esprimono qualità e primati. C’è da chiedersi:
1. Conviene all’industria (quelle multinazionali sicuramente sì) tenere in piedi questa situazione di punizione di un suo partner essenziale per la sua attività? Soprattutto quando il suo intento (missione) è quello di offrire qualità, che – è bene ripeterlo - è tale solo se legata al territorio;
2. Conviene al coltivatore continuare a produrre qualità per arricchire i padroni dei semi, dei concimi, degli antiparassitari, dei pesticidi, del gasolio, dei trattori e degli altri strumenti di produzione e, poi, rimetterci per diventare ancora più povero?
3. Serve ancora affidarsi a organizzazioni che dovrebbero difendere e valorizzare la sua professionalità e, invece, difendono le industrie multinazionali produttrici dei mezzi di produzione sopra citati? Le stesse organizzazioni che hanno permesso di far andare avanti un carico di burocrazia non più sostenibile. Basta, per capire, ascoltare il loro silenzio;
4. Serve propagandare le risorse e i piani di sviluppo dettati dall’Europa solo per illudere e asservire sempre più il mondo contadino, impoverirlo e, con lui, impoverire quel bene comune, il territorio, patrimonio di tutti? Con tutte le risorse messe a disposizione dall’Europa e destinate all’agricoltura i coltivatori dovevano essere, e da tempo, ricchi e non pieni di debiti come sta accadendo dal 2004, l’inizio della crisi strutturale dell’agricoltura nazionale;
5. Serve continuare a fare gli schiavi delle banche e delle multinazionali?
Non conviene e non serve. Conviene e serve, invece, ridare alla terra il senso della sacralità, il suo essere fonte di vita e di biodiversità.
Qualche anno fa, in contrapposizione alle azioni perdenti dei forconi, il mio invito ai coltivatori e alle loro organizzazioni a incrociare le braccia, fermarsi e lasciare alla terra la possibilità di dare tutto quello che poteva dare. Fermarsi per un anno e provare a incontrarsi, stare insieme per ragionare e decidere del proprio futuro e del futuro del territorio. In pratica capovolgere la situazione e fare impensierire le multinazionali, i lobbisti a loro disposizione, i fiancheggiatori e gli amici di questa o quella filiera che, come si sa, hanno sempre approfittato della pazienza dei produttori. Si tratta di organizzare un strano sciopero che porta a non acquistare, non sprecare gasolio, raccogliere solo quello che serve o che dà una risposta in termini di reddito. E, non solo, si tratta anche di evitare di ascoltare le prediche di turno, soprattutto dei politici che hanno in mano il potere e il denaro da distribuire. La distribuzione dei pani e dei pesci che, come in tutti questi anni, continua solo per non cambiare niente, se non a indebitare chi è già indebitato!
Il risultato sarebbe quello di un capovolgimento totale della situazione, una vera e propria rivoluzione, per di più silenziosa, pacifica, con i coltivatori, alla fine di un anno. riposati, sereni, ancor più attaccati alla loro terra, capaci di guardare gli altri e rivedere le stesse preoccupazioni e le stesse sofferenze da loro patire in questi anni..
Una rivoluzione che premia solo chi si rende conto che continuare a tirare la corda alla fine si spezza e, sapendo delle fortune che il territorio e i contadini insieme hanno dato e possono continuare a dare, usa l’intelligenza per dare vita al confronto e al dialogo, e, uniti gestire, nel segno del riscatto e del cambiamento, la nuova situazione avendo come punto di riferimento costante proprio il territorio.
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