Editoriali
L'assenza
19 maggio 2012 | Luigi Caricato
Avete notato l'assenza di figure intellettuali di grande spessore in ambito agricolo? Questa assenza - grave, anzi gravissima - perdura ormai da decenni. La questione agricola viene quotidianamente affrontata da figure di scarso rilievo intellettuale, per lo più tecnocrati o attivisti sindacali, o comunque politici (e in molti casi politicanti), mai o raramente da uomini e donne di pensiero.
Non esiste infatti una figura di intellettuale che affronti pubblicamente questioni legate all'agricoltura. O meglio: tali figure esistono, certo che esistono, ma restano perennemente ai margini della società. Non incidono e non determinano mai l'impulso al cambiamento solo perché non viene concesso loro spazio. Anzi, accanto ai soliti noti che fanno a gara a impossessarsi delle risorse destinate all'agricoltura, vi sono anche coloro che nulla hanno a che vedere con l'agricoltura vera e ne diventano addirittura i guru.
Resta da chiedersi a questo punto il perché e il come si sia venuta a creare questa situazione.
Per inedia, sicuramente; ma anche per troppa fame di danaro. L'agricoltura è stata sempre foraggiata in maniera perversa e il danaro, e il potere che ne consegue, fa gola a tutti. Inutile evidenziarlo. Alcuni soggetti ne hanno abusato, ottenendo in compenso un potere fuori ormai da ogni controllo.
Voi, a questo punto, viste tali considerazioni, pensate che sia possibile che gli intellettuali ruotanti intorno al mondo agricolo abbiano deciso di propria spontanea volontà di autoescludersi e di collocarsi ai margini? Oppure è il caso di credere invece che sia stata la politica e il sindacalismo agricolo, voraci di denaro e di potere come sono, ad aver confinato gli intellettuali veri, e puri, in una sorta di ghetto?
Io, a scanso di equivoci, credo che vi sia una responsabilità anche da parte degli intellettuali, nel loro non irrompere sulla scena imponendo con determinazione la propria presenza.
Se da una parte c'è il conclamato strapotere di chi gioca con la politica per imporre la propria supremazia, dall'altra c'è pure chi subisce in silenzio non curandosi di avere un proprio ruolo attivo e propositivo.
Ditemi che sbaglio e ne sarei felice; ma non sbaglio affatto, ne sono certo. Altrimenti oggi avremmo una agricoltura diversa, ma anche ministri diversi, un giornalismo agricolo diverso, un'associazionismo diverso.
Cosa è dunque accaduto? Perché siamo finiti così in malo modo?
Pensate che si possa fare ancora qualcosa per restituire valore alla classe intellettuale e ridare dignità all'agricoltura?
Tutto dipende da noi, state pur certi.
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20 maggio 2012 ore 18:35Uno dei tanti problemi dell'agricoltura di ieri ma anche di oggi e' che ci si affida troppo agli agronomi e poco anzi niente agli economisti. Non me ne vogliano gli agronomi, ovviamente essenziali, ma per risollevarne le sorti ci vorrebbe un approccio multidisciplinare. Il modus operandi delle associazioni, nessuna esclusa lo ripeto e' quello da me descritto in modo sintetico e non e' il passato ma e' il presente e sarà così anche per il futuro. Condivido la posizione di Guidorzi. I contributi hanno bloccato l'imprenditorialità . Se non avessimo avuto i contributi probabilmente ci troveremmo in una situazione differente. L'imprenditore e' colui che investe, rischiando i propri capitali e non e' colui che investe solo se ha fondi pubblici. Ci sono purtroppo molti agricoltori che sono giovani solo anagraficamente ma mentalmente vecchi avendo ereditato una forma mentis di vecchio stampo o avendo portato il proprio cervello all'ammasso essendosi allineati, anche per convenienza al pensiero di talune associazioni.
Leonardo Laureti
20 maggio 2012 ore 15:09Calma,
è la parola che mi viene in mente appena ho letto questi commenti...
Ringrazio come sempre il dott. Caricato per fornici sempre ottime provocazioni e spunti di dibattito in un panorama giornalistico occupato esclusivamente da comunicati stampa senza strumenti di interazione al contrario di quello che accade su Teatro Naturale. Grazie.
Il messaggio se ho capito bene, è quello di una maggiore partecipazione da parte di chi potrebbe seriamente dare una mano all’Agricoltura. Lo condivido in pieno, bisogna spronare chi ha cose importanti da dire o da fare.
Tuttavia, leggendo i vari commenti, credo che non ci dobbiamo far prendere troppo dalle emozioni perché a volte sono pericolose, ci offuscano un pò la mente e perché rispondere a questo editoriale non è cosa facile anzi, a mio avviso, molto complessa.
Ebbene sì, complessa, perché è sbagliato portare esempi del passato o pensare che quel passato possa essere attualizzato, perché l'economia è cambiata radicalmente, perché l’agricoltura è strettamente legata anche agli altri settori produttivi (industria e artigianato), perché l'Agricoltura si comanda da Bruxelles e a cascata dalle singole regioni, perché gli agricoltori non sono più quelli di una volta.
Dire che la colpa è esclusivamente delle organizzazioni sindacali, credo sia una risposta superficiale e sbagliata. Per carità hanno le loro colpe ci mancherebbe, ma non sono gli unici responsabili. E’ un sistema, lasciatemelo dire, vecchio! Fatto di gente vecchia nel pensiero.
Il mondo è cambiato e con esso l’agricoltura e noi siamo rimasti fermi a guardare, perché non avevamo né fame, né fretta.
La Politica Agricola Comune, se negli anni ’90 ha fatto vivere l’agricoltura sopra le sue reali potenzialità (tanto poi da essere stata vittima del proprio successo) ci ha omologato tutti, ora ci “impone” anche il tipo di rotazione che dobbiamo fare (art. 68 avv. bien.). Inoltre ci propone una PAC per il 2014-2020 che non è assolutamente all’altezza delle sfide del futuro ma al contrario sempre legata a vecchi retaggi colturali. Ancora parliamo di ettari ammissibili, mai di lavoro, di occupazione, mai. Va avanti con lo slogan “snellimento” ma si sa benissimo che poi si “ingrassa” sempre di più di carte.
Ora non dobbiamo buttar via tutto quello che è stato fatto, spesso fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce… sono state fatte anche buone cose.
Ora mi viene in mente il caso AGEA. Sette miliardi di soldi erogati all’anno, senza un’organizzazione interna efficiente. Ecco, qui avete ragione, qui la politica si è impadronita dei soldi degli agricoltori o meglio di tutti noi, questo è uno scandalo!!! e pensare che fino a poco tempo fa si pensava di delegare la politica agricola ai singoli stati… mamma mia…
Chi vince? Beh, chi rompe le regole…
E chi può rompere le regole? Sulla carta tutti, ma io mi auguro che a farlo siano i nuovi giovani agricoltori (non tanto di età anagrafica, ma di idee) perché ci piaccia o no, saranno loro i protagonisti dei prossimi anni, saranno loro ad esportare i propri prodotti se vorranno sopravvivere, spetterà a loro dimostrare cosa è oggi l’agricoltura.
I soldi fanno gola a molti, non credo nei moralisti, non prendiamoci in giro.
Non cerco politici intellettuali in Agricoltura (non ci saranno mai), cerco Agricoltori intellettuali e lasciatemelo dire, per farlo devo cercarli per forza nei giovani (quelli in gamba), negli altri purtroppo ho perso le speranze…
Scusate lo sfogo. Un saluto a tutti voi, che anche se non vi conosco personalmente, vi leggo con molto interesse e stima, perché siete food-for-mind.
Giulio P.
20 maggio 2012 ore 12:23Sei sicuro di non vederne?
Io francamente ne vedo troppi, chi utili anzi indispensabili come te, come il prof Attilio Scienza e tanti altri che non sto qui a citare, ma tanti altri di dubbia utilità specialisti solo nel aggiudicarsi i soldi destinati al settore agricolo.
massimo occhinegro
20 maggio 2012 ore 08:18Viviamo in un mondo in cui il vile denaro rappresenta oggi più che mai l'obiettivo da raggiungere, qualunque sia il mezzo, legale o borderline. L'intelletto in agricoltura per l'agricoltura e' merce rara. Il business dell'agricoltura e' rappresentato dai contributi. Si costituiscono società per il loro ottenimento e poi una volta ottenuti, ci si organizza sul come spenderli ovvero come ripartirli in primis tra i promotori e successivamente tra gli adepti. In questo modo i veri obiettivi strategici non sono mai raggiunti. Ad esempio, tutti parlano nel settore oleario di " educazione del consumatore" . Perche' nessuno ha mai investito in questo? ....Semplice perche' non ci sono contributi nazionali o europei che prevedano questa fattispecie.
Quindi Il modus operandi passa attraverso i seguenti steps:
1) ci sono dei fondi disponibili, cosa finanziano? Che contributo offrono?
2) inventiamoci un programma d'azione.
3) abbiamo una società che li può gestire? (Quasi sempre le altre società sono già impegnate per altri programmi..)
4) No? Creiamo un'altra società allora.
Ecco come ragiona chi si occupa a livello sindacale di agricoltura, il tutto nel rispetto delle regole. Come farebbero i veri intellettuali ad occuparsi di agricoltura fattivamente, prestando il proprio intelletto, quando si sa che gioco forza sarebbero costretti ad interagire con simili soggetti?
Alberto Guidorzi
19 maggio 2012 ore 20:06Alessia
Sapessi come ti capisco.
I sindacati agricoli hanno copiato dai commercialisti, questi a parole tutte le volte che fanno una finanziaria dicono peste e corna delle complicazioni introdotte, ma in privato si fregano le mani perché così i clienti non scappano e possono aumentare le parcelle. I consorzi agrari sono diventati degli sciacalli succhiano il sangue a dei moribondi che sono gli agricoltori, Sono tutti Commissariati, o pressochè tutti, e quindi il loro operare non ha nessuna prospettiva, ma solo di mantenere in piedi una struttura uscita da un fallimento.
Tu che sei una operatrice puoi confermare a chi ci legge che ad esempio le varietà di frumento da seme non valgono i soldi che chiedono perché non apportano miglioramenti produttivi visibili? Io sono stato in mezzo alle sementi per 50 anni lo so che è così, ma quando lo dico non mi credono. Non abbiamo più una genetica nazionale tutto è importato dall'estero, anche se in certi casi sono moltiplicati in Italia.
alessia farina
19 maggio 2012 ore 15:38La perdita di cultura è uno dei principali problemi di tutta la società. In agricoltura non è un più un problema, è un dramma! Purtroppo il nostro mondo è decaduto, ci sono rimaste le scarpe grosse ma il cervello fino lo abbiamo perso insieme alla voglia di migliorarci. Abbiamo delegato ad altri, insieme agli obblighi burocratici, anche il pensiero. Da quando non ci sentiamo più in grado di gestire in autonomia le nostre aziende e il nostro lavoro, pensiamo di non essere più neanche all'altezza di pensare. Lasciamo che siano altri a farlo per noi.
Sembra assurdo ma da quando le imprese agricole possono chiedere soldi pubblici si è avuta una retrocessione culturale.
Se prima ci si affidava all'aiuto di un professionista per migliorare la produzione aziendale, adesso ci affidiamo ad altri ( non sempre professionisti) per ogni cosa. Lo facciamo perchè è fatica stare dietro a tutto, perchè se si lavora nel campo non si può star dietro ad ogni regolamento ma lo facciamo soprattutto perchè c'è sempre qualcuno che ai nostri occhi sa molto meglio di noi quale sia la strada giusta da seguire.
Ci spiegano quando è opportuno aderire al PSR, quando è il momento giusto per effettuare quell'investimento. Ci suggeriscono che è il caso di dedicarci alla vendita diretta aziendale investendo, magari, anche nell'agriturismo e dedicandoci ai mercatini. Ci dicono quando è il caso di aprire un'altra partita IVA, tanto per avere qualche opportunità in più, quando è il caso di associarsi, di cooperare, di organizzarsi in O.P. Ma poi c'è anche l'organizzazione professionale che ci convince che non è più il caso di gestire l'allevamento in quel certo modo e che è opportuno fare come fanno tutti glia altri . E alla vigilia della semina organizza anche degli incontri in modo da indirizzare le scelte delle varità da seminare, perchè quest'anno è meglio decidere insieme! O i tecnici del consorzio agrario che ci suggeriscono che certi trattamenti sono INDISPENSABILI !! Poi accendiamo la TV e i sondaggi agricoli la fanno da padrone nei TG. Le associazioni agricole si occupano di tutto, e allora a chi affidarsi se non a loro che sanno esattamente quello che è meglio fare? Inutile sforzarsi a cercare, leggere,studiare e pensare quando il resto del tuo mondo va in un'altra direzione.
Eppure l'informazione e la cultura sarebbero gli unici strumenti per avere autonomia decisionale, per essere indipendenti dal pensiero altrui sia idal punto di vista economico che da quello personale. In una tale situazione, quale intellettuale può essere allettato dal mondo agricolo? E se ci mettiamo l'ostruzionismo di chi dall'ignoranza agricola ne giova ,capiamo che siamo caduti in pozzo senza fondo.
Alberto Guidorzi
19 maggio 2012 ore 15:20Egregio Dr Caricato
Al contenuto del suo editoriale sarei tentato di rispondere: “l’agricoltura non interessa perché non esiste più, ma con l’aggiunta che non esistono più neppure gli agricoltori”.
In Italia dal dopoguerra in poi si è sacrificata l’agricoltura sull’altare della industrializzazione. Questa è anche la frase fatta che sente dire da tutti gli addetti all’agricoltura, ma loro non hanno il diritto di pronunciarla perché non sono stati dei sacrificati, anzi hanno usato gli innumerevoli aiuti non per progredire, ma per regredire come imprenditori. Evidentemente un buon numero di imprenditori bravi c’è ancora, ma purtroppo sono una buona minoranza, mentre il rapporto dovrebbe essere invertito, come in realtà lo è in altri Paesi europei assoggettati alla spessa politica agricola. La Spagna ci ha superato ed è tutto dire, vista la base di partenza.
E’ pure evidente che quanto ho affermato va motivato e mi appresto a farlo per sommi capi.
I valori fondiari in Italia hanno sempre drogato il fare agricoltura, l’istituto dell’affitto è stato distrutto con leggi demagogiche, una di queste è che in Italia possono fare gli agricoltori tutti quelli che possiedono terra, nel senso che chiunque coltiva (o meglio fa coltivare) ha accesso agli aiuti statali e comunitari.
Oltre agli aiuti statali e comunitari in Italia vi è stato una droga occulta e sconosciuta agli altri agricoltori europei. A vantaggio degli agricoltori italiani ed ancor di più dei soli proprietari di terra fatta coltivare da prestatori d’opera, vi sono state le frequenti svalutazioni della moneta nazionale, che hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti agricoli nazionali e fatto tesaurizzare la terra perché sempre più bene rifugio.
Tutto ciò non ha creato la crescita del settore, anzi l’ha anchilosato. Un settore non dinamico, ripiegato su se stesso, rappresentato da sindacati a cui fa comodo che il settore rimanga in questo stato, un settore che nasconde tutta la sua grave problematicità ponendosi solo come produttore del tipico, del rispetto della naturalità confusa con l’arcaismo, non richiama curiosità intellettuale, anzi la rifugge perché una mente scevra da ideologie e che l’analizza con obiettività e la pone come vera attività economica multifunzionale certo, ma che non può negare la produttività, perché chiamata ad assicurare fin dove possibile la sicurezza alimentare di una nazione, si accorgerebbe che da una parte vi è chi ha costruito le sue fortune facendo credere che all’agricoltura siano assegnati solo compiti ludici e di svago, oppure solo deputata ad assicurare voglie capricciose (Slowfood, Greenpeace, Capanna, movimenti verdi), mentre dall’altro vi sono una pletora di vecchi agricoltori sorpassati dalle innovazioni, poco esigenti per educazione, ma nel contempo soddisfatti di contare il gruzzoletto messo da parte e non disposti a rischiarne nemmeno una minima parte.
Un settore come questo non invoglia menti elevate ad occuparsene, anzi non merita attenzione. Per quanto mi riguarda vi ho scritto due libri sulla mia infanzia contadina, retaggio di due secoli di una dinastia di agricoltori in proprio, certamente per richiamare il passato, ma non certo per idealizzarlo, anzi per far notare cosa significava vivere a quei tempi, vale a dire lavorare da sole a sole e assillati dalla paura che un cattivo raccolto non permettesse la congiuntura tra due stagioni produttive; altroché genuinità e sapori dell’antico, la realtà era ristrettezze e insalubrità.
Alfonso Pascale
19 maggio 2012 ore 11:58Quando mi chiedono che cosa fai nella vita rispondo che trascorro gran parte del mio tempo a studiare e a scrivere. Anch’io ho dunque la fortuna, nel mio piccolo, di partecipare al travagliato processo che dalla conoscenza dovrebbe portare alla formazione delle opinioni. Sono uno scrittore. Ho scritto qualche libro ed altri ne ho sparsi nella memoria del computer da concludere e inviare all’editore. Sono a mio modo un intellettuale. Ed essendomi occupato da ragazzo di cose agricole, conosco questo meraviglioso mondo.
Mi sento, dunque, chiamato in causa dal tuo editoriale, soprattutto laddove tu individui una responsabilità di quegli intellettuali che pur conoscendo i problemi dell’agricoltura tacerebbero, subirebbero in silenzio la propria emarginazione e non si curerebbero di avere un ruolo attivo e propositivo.
Devo confessare di non avvertire il peso di questa responsabilità. Non taccio perché mi sono imposto di tacere. Non subisco in silenzio alcunché perché non mi sento affatto emarginato o vittima di discriminazioni. Mi percepisco anche fin troppo attivo. Nell’ultima settimana sono stato ad Oristano, a Caserta e a Catanzaro per intervenire in convegni e incontri di lavoro. Lo stress mi ha procurato un attacco di gotta e col piede infiammato sono andato comunque a relazionare in due seminari per non venir meno agli impegni presi. Sto organizzando un convegno alla Biblioteca del Senato sul tema “Cibo, terra, acqua, sostenibilità. Quale futuro per 10 miliardi di persone”, che sarà concluso dal decano della sociologia italiana, Franco Ferrarotti.
Eppure, tu poni un tema generale che è reale e riguarda il ruolo degli intellettuali nella formazione delle opinioni e, dunque, anche nella creazione di un’opinione pubblica sulle questioni dell’agricoltura. Ed è su questo che avverto anch’io il peso di una responsabilità enorme. Ma la difficoltà è generale e riguarda tutti gli ambiti disciplinari, non solo quello agricolo.
Come afferma Martha C. Nussbaum ne “La fragilità del bene”, l’intellettuale deve favorire socraticamente lo sviluppo di una nuova techne che assimili la deliberazione pratica al contare, al pesare e al misurare. L’intellettuale contribuisce a spostare continuamente le colonne d’Ercole e ogni volta che ciò accade classifica l’entità dello spostamento e disegna nuove cartine con nuovi confini. Ma oggi che i cambiamenti sono repentini e di dimensioni molto più vaste di quelli che si registravano in passato, avremmo bisogno di un impegno intellettuale molto più denso e sofisticato per leggere la complessità e formare opinioni. La complessità richiede scambi interdisciplinari, analisi accurate, rigoroso ricorso alle fonti scientifiche, disponibilità al confronto e alla condivisione. Richiede pazienza, rispetto reciproco, capacità di ascolto, che sono virtù divenute sempre più rare e che oggi sono ancor più necessarie. E dinanzi a queste difficoltà, la gran parte degli intellettuali preferisce ricorrere all’evocazione idilliaca del passato, alla retorica dell’apocalisse, all’atteggiamento antiscientifico ritenuto più vicino al modus vivendi della gente comune, anziché dedicarsi allo studio, all'autodisciplina e al rigore.
Questa involuzione degli intellettuali riguarda qualsiasi tema complesso e l’agricoltura, proprio per la complessità, la trasversalità e l’interdipendenza dei suoi problemi, è tenuto a debita distanza. Forse è una fortuna che ciò avvenga: rischieremmo che a Petrini si accoderebbero Beppe Grillo e Celentano e sarebbe il disastro.
Come farvi fronte? Facendo ognuno la sua parte. Dando spazio in quello che facciamo ai saperi competenti, alle analisi rigorose, all’informazione tecnico-scientifica. Scrivendo libri divulgativi a più mani, mettendo insieme più discipline e più ambiti settoriali. Tu, Luigi, potresti avere una funzione essenziale in questa modalità di comunicazione. E dovremmo far leva anche sulla fraternità civile nei nostri ambiti professionali e culturali, per trasformare la conoscenza in opinioni e il confronto delle opinioni in crescita della democrazia.
Alberto Guidorzi
20 maggio 2012 ore 23:58Leonardo Laureti
Anch’io credo che giunti al punto in cui siamo non si può che tentare di risalire e penso come lei che lo faranno i “giovani di idee”, ma gli si deve dare la possibilità di mettere a frutto le idee nuove su strutture che permettono di svilupparle. Inoltre queste strutture (superficie) devono essere accessibili, ma in Italia non lo sono proprio perché il terreno è ancora un bene rifugio troppo appetito per chi ha soldi da investire, e per giunta non gli è richiesto di impegnarsi in agricoltura.
Non è certo inventando le microaziende che vendono i loro prodotti a km 0 che si mette a disposizione un campo dove mettere a frutto delle idee. Faccio un esempio concreto immagini una famiglia giovane, padre e madre e figli non in grado di lavorare che su tre ettari decidono di fare gli orticoltori a vendere il loro prodotto a km 0, vale a dire andarli a vendere al più vicino mercato. Capofamiglia e moglie devono almeno lavorare 10 ore al giorno per produrre, poi ogni mattina alle cinque sveglia per preparare il camioncino per il mercato. Diciamo tre ore di mercato? Poi ritorno a casa e ritorno nei campi. Questo capofamiglia quanto si crede che duri a fare questa vita? La moglie come può tirare avanti famiglia e figli?. Qualcuno potrebbe dire che occorrerebbe almeno uno o due coadiutori in più, ma se prefiguriamo ciò i proventi non saranno più sufficienti. Altri dicono che può vendere a prezzi maggiori una produzione con caratteristiche ecologiche, qunati la comprano? Quanti continueranno a comprare in peridi di crisi come questa? Queste sono le idee sindacali “nuove”! Non solo ma al MIPAF ministri, direttori e capiservizio sono nominati o fanno carriera solo se funzionali allo status-quo imposto dei maggiorenti sindacati: che è l’immobilismo.
Adesso racconto cos’è stato fatto in altri paesi dal dopoguerra in avanti. La fine della guerra ha coinciso nel mondo occidentale con la volontà politica di migliorare l’alimentazione e liberare forza lavoro. Si sono messe in atto organizzazioni di mercato per una più facile vendita dei prodotti agricoli, garantire prezzi più stabili e remunerativi per stimolare la produzione, al fine di dare i mezzi per generare autoinvestimenti e utilizzare i crediti agevolati. La crescita dell’agricoltura fu accompagnata da dispositivi nazionali di ricerca e sviluppo con periferizzazione della divulgazione. Contemporaneamente si cercò di creare un flusso di terre verso le aziende in sviluppo provenienti dalla aziende che invece non reggevano lo sviluppo. Inoltre già negli anni ’60 si individuarono meccanismi per facilitare la decisione di ritirarsi dal fare l’agricoltore oltre una certa età (nel 1972 l’UE copiò questa politica). Furono i piccoli coltivatori a non essere incentivati a restare sulla terra, ma dall’altro verso si impedì che si formassero aziende troppo grandi e che non potessero sfruttare appieno l’attrezzatura. Si puntò all’azienda media di una certa dimensione. Addirittura anche i giovani agricoltori che volevano installarsi su aziende troppo piccole furono disincentivati con la negazione dei sussidi. In altri termini si perseguì la strategia di creare aziende medie ed anche grandi, ma a struttura e conduzione famigliare. Ciò mise in crisi le regioni ad agricoltura particolarmente sfavorita, e per queste si inventarono soluzioni ad hoc.
Non mi sembra che in Italia si sia praticata una politica simile, anzi la politica monetaria da sempre praticata per favorire le esportazioni industriali, ha drogato l’agricoltura ed ha mantenuto strutture obsolete ed incapaci di sostenere la concorrenza. Tutti voi sapete che l’unico mercato comune creato in Europa fin dall’inizio dell’Unione europea fu il mercato comune agricolo a cui fu assegnato una moneta unica di riferimento conosciuta come “moneta verde”. Cioè i prezzi agricoli erano espressi in moneta verde e poi trasformati in moneta nazionale con un cambio concordato all’interno di ogni paese. In Italia vi era la “lira verde” con un tasso di cambio che serviva per creare i prezzi nazionali.
Il meccanismo escogitato, trattandosi di un mercato comune, volle preservarne l’equilibrio e quindi il paese che svalutava la sua moneta (e l’Italia lo fece più e più volte) era obbligato a rivalutare la lira verde di un ugual tasso in modo che aumentassero i suoi prezzi agricoli e quindi non si potesse fare concorrenza agli altri Stati comunitari con prezzi agricoli divenuti concorrenziali.
Con tale meccanismo si drogò più e più volte i redditi agricoli degli agricoltori italiani che così tesaurizzarono varie plus valenze e mascherarono le obiettive difficoltà della nostra struttura agricola e l’ambiente pedoclimatico. Ebbene queste plus valenze non furono mai usate per crescere di imprenditorialità e di dimensioni, anzi si ottenne l’effetto contrario. In più in sede comunitaria si lucrarono più soldi da distribuire a pioggia agli agricoltori che fondi per riforme strutturali. Paesi come Francia, Olanda, Germania a moneta molto più stabile, che, quindi non poterono contare su queste plus valenze, dovettero impegnarsi in riforme strutturali e soprattutto nel far crescere la produttività dei loro terreni per creare reddito.
Venne però il momento che si cambiò registro, nel senso che i sussidi alla produzione di fonte comunitaria furono riportati su livelli molto più bassi o tolti perché in ambito di accordi sul commercio mondiale le soluzioni di compromesso impedirono qualsiasi sostegno diretto alle esportazioni comunitarie e la spinta dei consumatori ne obbligò l’ancoraggio a particolari comportamenti ambientali che impedirono di raggiungere superiori livelli di produttività, anzi ciò che bolle in pentola è che si debba togliere terra dalla produzione per finalità agroambientali. Ad aggravare la cosa si aggiunse l’avvento dell’€ che eliminando le monete nazionali impedì a noi ogni svalutazione competitiva.
E’ così che venne a galla tutta la nostra arretratezza agricola e che ora sta strozzando molti agricoltori e molte coltivazioni perché sono calati i prezzi e non abbiamo produttività unitarie adeguate a surrogare il prodotto della moltiplicazione (prezzo x unità prodotte) su livelli tali da preservare il reddito. I sindacati agricoli italiani sono stati a guardare ed a preservare la loro prebenda, anzi orientarono alla conservazione le scelte di politica agricola nel senso a loro più consono. Negli altri paesi, i sindacati si unificarono e la politica agricola accompagnò la crescita imprenditoriale e tecnica degli agricoltori.
Ecco qual è la realtà dell’Italia. Ci saranno pure dei colpevoli o ci affidiamo sempre ai soli piagnistei?
Qual è la realtà degli altri paesi? Che pur percependo tutti aiuti comunitari ed in gran quantità, alcuni li tesaurizzarono, mentre altri li usarono per investimenti. Ad esempio i francesi nel periodo degli aiuti corrisposti in funzione delle quantità prodotte lucrarono molto di più in funzione della loro alta produttività, ma il loro trend di aumenti produttivi in ogni coltivazione (anche in quelle in cui ci ritenevamo insuperabili) fa stralunare gli occhi.
Ebbene siamo di fronte alla parabole dei talenti, tutti li hanno ricevuti e copiosi, qualcuno li ha fatti fruttare altri, cioè gli italiani, li abbiamo “seppelliti”. Inutili lagnarci che concorriamo di più alle casse dell’UE, che ciò che ci viene ritornato. Se insistiamo su ciò, dimostriamo anche di essere fessi per aver permesso agli altri di fare i loro comodi.