Bio e Natura
Agricoltura biologica, quando la sostenibilità è una sfida
La tecnica della non lavorazione ha un impatto positivo sui parametri microbici, indicatore importante della qualità del suolo. Anche la densità delle infestanti è stata notevolmente inferiore nelle varianti non lavorate rispetto a quelle lavorate
23 maggio 2018 | C. S.
Conservare la fertilità del suolo e la biodiversità, favorire il risparmio energetico, ridurre le emissioni di CO2: ecco le più importanti sfide di un’agricoltura biologica che guarda sempre più alla sostenibilità ambientale. E proprio questi sono gli obiettivi di Soilveg, il progetto europeo triennale, coordinato dal CREA Agricoltura e Ambiente, i cui risultati finali vengono presentati oggi a Roma, presso la sede della Società Geografica Italiana.
I ricercatori, dei diversi Paesi europei partner (Slovenia, Danimarca, Spagna, Estonia, Belgio, Francia e Lettonia, mentre per l’Italia c’è anche l’università di Bologna) si sono concentrati sulla non lavorazione – insieme di tecniche per seminare o trapiantare una coltura senza o quasi lavorare il terreno, che comporta vantaggi ambientali a fronte di rese inferiori – e sull’introduzione di colture di servizio agro-ecologico - cioè finalizzate non al reddito, ma ai servizi ecosistemici (es. impollinazione, controllo erosione, riduzione del dilavamento degli elementi nutritivi, riduzione dell’uso dei fertilizzanti azotati, se leguminose). La non lavorazione del suolo è abbinata all’uso del rullo pacciamante: si tratta di un rullo sagomato, utilizzato per allettare le colture di servizio agroecologico, invece di interrarle con una lavorazione (sovescio, che è la pratica ad oggi più diffusa), e permettere quindi la semina o il trapianto della successiva coltura da reddito. Ed è con questa modalità che sono stati coltivati in biologico: cavolfiore, peperone, pomodoro, zucca, utilizzando come colture di servizio agroecologico: favino, veccia, orzo, grano saraceno, secale.
“L’identificazione delle specie di servizio agro ecologico più adatte e le proporzioni delle diverse specie e famiglie negli eventuali miscugli di semina sono aspetti cruciali da considerare per ottimizzare localmente questa tecnica – spiega il coordinatore del progetto Stefano Canali, ricercatore CREA - Inoltre, il cantiere di lavoro utilizzato deve essere adeguato ed adattato alle condizioni specifiche del suolo”.
I risultati di Soilveg evidenziano come la tecnica della non lavorazione abbia un impatto positivo sui parametri microbici, indicatore importante della qualità del suolo. In generale, la densità delle infestanti è stata notevolmente inferiore nelle varianti non lavorate rispetto a quelle lavorate. E si è potuto riscontrare che le comunità vegetali delle parcelle lavorate, laddove la coltura di servizio agroecologico è stata sovesciata, sono state caratterizzate da piante infestanti annuali più competitive, con maggiore superficie fogliare specifica, maggiore altezza e con più lungo periodo di fioritura. La non lavorazione ha avuto risvolti positivi anche per la biodiversità delle comunità di artropodi predatori del suolo: infatti, la densità dei coleotteri del suolo (Carabidae), di altri insetti predatori (es. Staphylinidae), e in alcuni paesi anche di ragni, è risultata maggiore rispetto alle parcelle test lavorate. Inoltre, il consumo energetico è stato ridotto in media del 20% per unità di superficie nelle parcelle non lavorate rispetto alle varianti lavorate con il sovescio, mentre nella non lavorazione risultano minori anche le emissioni di gas serra.
Le attività del progetto hanno consentito di identificare le principali criticità della tecnica di non lavorazione basata sull’utilizzo del rullo pacciamante. I ricercatori sono stati impegnati nell’adattare questa tecnica alle necessità locali, migliorando sia l’aspetto tecnico che quello ambientale e, allo stesso tempo, riducendo il suo impatto negativo su qualità e quantità della produzione.
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