Salute
La tassa sui junk food sarebbe un boomerang
Secondo il nutrizionista Andrea Ghiselli: “non è corretto classificare gli alimenti in buoni e cattivi". La reazione degli italiani potrebbe poi risultare peggio della cura
04 febbraio 2012 | C S
La ipotizzata tassa su bevande alcoliche e i cosiddetti junk foods continua a suscitare interesse. È un dibattito che mette insieme il punto di vista di chi il cibo lo produce, ogni giorno, e degli esperti che devono stabilire cosa è giusto mangiare e non mangiare e in che modo si costruisce uno stile di vita sano.
Cominciamo da un nutrizionista che da anni si occupa di raccontare agli italiani quali sono i comportamenti alimentari giusti e quali invece sono da evitare.
Andrea Ghiselli, Dirigente di ricerca e Responsabile dell’ufficio comunicazione INRAN, guarda all’ipotesi di tassazione senza alcun entusiasmo.
“Non entro nel merito politico-economico di una tassazione del cibo perché esula dalle mie competenze, ma non si faccia in nome di un miglioramento dell''alimentazione degli italiani perché non ha senso. Sono sempre scarse le risorse che abbiamo a disposizione per la prevenzione e la corretta educazione alimentare, ma una tassa discriminatoria potrebbe aumentare la confusione, oltre ad essere regressiva. Non è corretto infatti classificare gli alimenti in buoni e cattivi, cibi sì e cibi no ed è cattiva educazione alimentare. Come facciamo inoltre a definire il junk food? Alimenti troppo ricchi di grasso? Di calorie? Di zucchero? Di sale? Allora è junk food tanta parte del patrimonio alimentare italiano, dall''olio di oliva, al parmigiano, al prosciutto crudo. Terzo ma non ultimo: il consumo di prodotti comunemente considerati junk food, come merendine e bevande carbonate, rappresenta oggi una piccola parte dell''apporto calorico della popolazione italiana, ma si vorrebbero additare come responsabili dell''eccedenza ponderale”.
Intenzioni lodevoli, dunque, ma totalmente sbagliata la strategia, secondo Ghiselli: “Dobbiamo invece educare il consumatore ad adeguare la propria alimentazione al proprio fabbisogno energetico, facendo discriminazione tra sedentarietà e attività fisica, non fra alimenti buoni e alimenti cattivi, cosa che inevitabilmente distoglierebbe l''attenzione dallo stile di vita”.
Se la parola passa al mondo dell’industria, la reazione, come è logico, è ancora più radicale. Filippo Ferrua Magliani, Presidente di Federalimentare – l’associazione che rappresenta le tutte le industrie produttrici del food&drink del nostro Paese - rifiuta l’ipotesi di tassa di scopo destinata a compensare alcune misure di rimodulazione della spesa sanitaria di competenza regionale per due diverse ragioni. La prima, di principio: “E’ un’ipotesi che non ho difficoltà a definire malaugurata perché ritengo – a nome dell’industria alimentare del Paese – che la tutela sanitaria dei nostri cittadini non si persegue con le tasse ma con l’educazione alimentare. Non esistono cibi cattivi di per sé: occorre adottare corrette diete e modalità e frequenze di consumo. E, a questo proposito, Federalimentare ha sottoscritto due protocolli molto impegnativi con il Ministero dell’Istruzione per dar vita al piano formativo del programma Scuola e Cibo, e con il Ministero della Salute per le azioni condivise nell’ambito del programma Guadagnare Salute, in particolare la auto disciplina della comunicazione commerciale ai bambini e la riformulazione dei prodotti.”
La seconda ragione è invece relativa alla sostanza e agli effetti della tassa ipotizzata: “Esiste una vasta letteratura scientifica che testimonia l’inefficacia di politiche sanitarie rivolte a penalizzare alcuni consumi alimentari ritenuti, impropriamente, come testimoniano molti esperti, dannosi. Oltre alla distorsione di concorrenza e al rinforzo delle spinte recessive, purtroppo già operanti nel nostro Paese, il risultato sarebbe paradossale. I consumatori, costretti a salvare i cosiddetti consumi anaelastici – quelli dei quali, come la benzina, non si può fare a meno – di fronte a un aumento dei prezzi di quelli elastici, dirotterebbero le proprie scelte verso prodotti analoghi, più economici e di peggiore qualità, intaccando in questo modo non solo il potere d’acquisto ma anche la qualità della dieta. L’effetto sarebbe dunque esattamente l’opposto di quello auspicato , generando inoltre gravi effetti sull’occupazione del nostro settore”.
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