Mondo
La sfida sul Parmesan tra Stati Uniti e Italia
 
          Negli Usa esiste il Consortium for common food names che pretende di usare nomi di prodotti tipici italiani, in italiano, per commercializzare qualcosa che made in Italy non è
21 aprile 2023 | Giosetta Ciuffa
 Quanto il Parmigiano - formaggio a pasta dura per noi quasi impossibile da immaginare avulso dal territorio di Parma e Reggio - può riconoscersi nel parmesan e quanto ha il parmesan in comune con il Parmigiano Reggiano? Pressoché nulla, tranne forse che sono entrambi formaggi. E su questo giocano gli americani, sostenendo che non si possa togliere loro il diritto di usare denominazioni che negli USA sono intese come nomi comuni. Il loro punto di vista è comprensibile: nella terra del McDonald’s, senza una tradizione gastronomica degna di nota, dopo aver abituato i consumatori a brutte copie di prodotti qui tutelati e aver visto entrare nel parlar comune nomi quali parmesan, mozzarella, asiago e fontina (rigorosamente minuscolo, essendo nomi comuni), è normale che chi ha fatto dell’imitazione un lavoro, peraltro molto redditizio a discapito dei prodotti italiani, abbia timore di un inasprimento delle norme a protezione delle denominazioni UE. Inasprimento sul quale si sta lavorando a Bruxelles che proprio ieri ha visto l’approvazione unanime della bozza di Regolamento sulle indicazioni geografiche e che presumibilmente passerà nel prossimo semestre europeo, a guida spagnola. Finalizzato anche a dirimere questioni come l’aceto balsamico sloveno o cipriota e il prosek croato, il Regolamento è purtroppo valido solo negli Stati membri. Fuori dall’Unione Europea ci si affida ad accordi ad hoc, che non sempre però si riesce a sottoscrivere, a volte anche per gli interessi in gioco. Basti pensare al valore economico generato dal falso made in Italy statunitense che viaggia con l’italian sounding più becero (Chianti e San Marzano da colture unicamente americane, solo per citare qualche scandaloso esempio).
Quanto il Parmigiano - formaggio a pasta dura per noi quasi impossibile da immaginare avulso dal territorio di Parma e Reggio - può riconoscersi nel parmesan e quanto ha il parmesan in comune con il Parmigiano Reggiano? Pressoché nulla, tranne forse che sono entrambi formaggi. E su questo giocano gli americani, sostenendo che non si possa togliere loro il diritto di usare denominazioni che negli USA sono intese come nomi comuni. Il loro punto di vista è comprensibile: nella terra del McDonald’s, senza una tradizione gastronomica degna di nota, dopo aver abituato i consumatori a brutte copie di prodotti qui tutelati e aver visto entrare nel parlar comune nomi quali parmesan, mozzarella, asiago e fontina (rigorosamente minuscolo, essendo nomi comuni), è normale che chi ha fatto dell’imitazione un lavoro, peraltro molto redditizio a discapito dei prodotti italiani, abbia timore di un inasprimento delle norme a protezione delle denominazioni UE. Inasprimento sul quale si sta lavorando a Bruxelles che proprio ieri ha visto l’approvazione unanime della bozza di Regolamento sulle indicazioni geografiche e che presumibilmente passerà nel prossimo semestre europeo, a guida spagnola. Finalizzato anche a dirimere questioni come l’aceto balsamico sloveno o cipriota e il prosek croato, il Regolamento è purtroppo valido solo negli Stati membri. Fuori dall’Unione Europea ci si affida ad accordi ad hoc, che non sempre però si riesce a sottoscrivere, a volte anche per gli interessi in gioco. Basti pensare al valore economico generato dal falso made in Italy statunitense che viaggia con l’italian sounding più becero (Chianti e San Marzano da colture unicamente americane, solo per citare qualche scandaloso esempio).
Negli USA esiste persino un consorzio a difesa dei “nomi comuni di alimenti”: il CCFN, Consortium for common food names, che recentemente è stato a Washington per sensibilizzare il Campidoglio sulla necessità di usare nomi di prodotti tipici italiani, in italiano, per commercializzare qualcosa che vorrebbe passare come prodotto alla maniera dell’Italia ma che made in Italy non è. Poi tutto diviene più chiaro quando ci si accorge che il suddetto Consortium for common food names è presieduto dal fondatore di BelGioioso Cheese Inc. Errico Auricchio, lontano cugino degli Auricchio nostrani, che ha lasciato l’Italia per stabilirsi nel 1979 in Wisconsin dove produce e vende ovunque - tranne che in Europa - parmesan, burrata cheese, asiago e così via. L’Auricchio emigrato è quindi sul piede di guerra per difendere il diritto dei produttori americani a chiamare con nomi a detta loro generici (ma tutelati dall’Unione Europea) quelli che nient’altro sono se non prodotti esteri evocanti il made in Italy. Approfittando quindi indebitamente di notorietà e qualità delle dop e igp, preme sul Congresso e sull’amministrazione affinché sostengano maggiormente all’estero le aziende del food & beverage che si affidano all’export.
Lo scorso dicembre, a fronte di una “tendenza crescente dei paesi che ignorano impegni e leggi commerciali precedentemente sottoscritte per imporre regolamenti limitativi dell’uso di nomi comuni, il CCFN ha scritto all’ambasciatrice Katherine Tai, U.S. Trade Representative (rappresentante per il commercio degli Stati Uniti), per evidenziare come solo il Governo USA possa combattere completamente l’attuale dinamica di disparità del campo di gioco globale poiché le decisioni in merito alle restrizioni sui nomi comuni vengono prese dai negoziatori commerciali ufficiali del Governo - così recita un comunicato del consorzio -. Dal Messico al Mercosur alla Malesia, il CCFN ha dettagliato vari esempi dell’UE che utilizza i negoziati dell’accordo di libero scambio per fare pressione su altri Paesi affinché adottino restrizioni sui nomi comuni. È più importante che mai che i governi prendano posizione in difesa della concorrenza leale e fermino la monopolizzazione dei nomi comuni da parte dell’Unione Europea”. E a nulla pare servire il fatto che il consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano ha, neanche un mese fa, portato a casa due importanti vittorie: il respingimento del sesto tentativo del gruppo Alpina di registrare il marchio “parmesano” in Colombia nonché quello del ricorso di Fonterra Brands, con sede in Nuova Zelanda, che in seguito alla registrazione a Singapore del nome Parmigiano Reggiano come indicazione geografica, ha presentato un’istanza affinché “parmesan” non venisse considerato una traduzione del nome della DOP e potesse liberamente commercializzare sotto questo nome un formaggio con il marchio “Perfect Italiano”, con tanto di tricolore sulla confezione benché prodotto a quelle latitudini. Come dichiarato in una nota del consorzio, il giro d’affari stimato del falso parmesan fuori dall’UE ammonta a circa 2 miliardi di euro, circa 200mila tonnellate: oltre tre volte il volume del Parmigiano Reggiano esportato.
Nel 2008, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che nei confini UE come “parmesan” può essere venduta solo la dop; questa normativa però non vale ovunque, ecco quindi che si creano “controconsorzi” come il CCFN che ritengono l’UE stia confiscando loro i nomi degli alimenti. E la strada pare in salita: nel marzo scorso una Corte d’appello USA ha confermato precedenti decisioni che già ritenevano “gruyere” termine generico per una varietà di formaggio. Secondo gli industriali americani, i consorzi svizzeri e francesi stanno tentando di “espropriare una denominazione alimentare comune attraverso la registrazione di un marchio di certificazione statunitense”. Questo ovviamente apre la strada a rischiosi scenari anche per le dop e igp italiane, le più numerose e richieste al mondo. Secondo i dati Istat del dicembre scorso, sono 315 i prodotti sotto tutela e nel 2021 sono stati tre i riconoscimenti: Olio di Roma igp, Pesca di Delia igp e il Pistacchio di Raffadali dop. Seguita da Veneto, Sicilia e Lombardia è l’Emilia-Romagna la regione con il maggior numero di riconoscimenti dop e igp.
È il caso di notare come mamma Italia, nello specifico la regione di appartenenza, continua a for(m)aggiare i propri figli anche quando questi l’hanno abbandonata.
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