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Carapelli e Filippo Berio alla sbarra. La guerra americana all'olio d'oliva europeo
Con l'extra vergine non si diventa ricchi eppure l'interesse verso questo prodotto e il suo mercato sta crescendo. Lo shopping dei marchi nostrani continua: venduto Lucini. Filippo Berio e Carapelli oggetto di class action in California
13 gennaio 2015 | T N
Nel mentre l'Italia piange per una campagna olearia disastrosa, continua il pressing americano sull'olio di oliva europeo.
Il 5 gennaio, il California Olive Ranch ha annunciato l'acquisto del marchio italiano Lucini. L'azienda Lucini fu fondata nel 1997 per vendere sul mercato statunitense l'olio italiano.
Con l'acquisizione i marchi del California Olive Ranch hanno una quota di mercato del 4,45% nel retail, per un fatturato di 80 milioni di dollari l'anno.
Nel mentre due marchi “italiani”, ovvero che suonano come nazionali, ma la cui proprietà è straniera, sono incappati in guai giudiziari in California.
Carapelli, di proprietà della spagnola Deoleo, a sua volta controllata dalla britannica Cvc Partners e Filippo Berio, di proprietà Salov, ora acquisita dal gruppo cinese Yimin sono state citate in due distinte class action per non aver mantenuto le promesse fatte ai clienti.
Le due class action, i cui documenti potete trovare qui e qui, sono state presentate a metà dell'anno passato e secondo molti analisti giudiziari non avrebbero passato il primo vaglio di ammissibilità, vista la genericità delle affermazioni.
Gli attori, Koller et al e Kumar et al, hanno accusato Deoleo e Salov di aver violato una serie di norme americane tra cui la Law360, ma anche la California’s False Advertising Law e la Unfair Competition Law e infine la Consumer Legal Remedies Act.
Ma di cosa sono accusati esattamente questi marchi, che vengono indicati come italiani in Usa? Di aver venduto olio raffinato sotto la dizione di extra vergine, di aver spacciato come italiano olio di diversa provenienza, grazie alla dizione “imported from Italy” e infine di aver trasportato l'olio in condizioni non idonee (senza controllo della temperatura e in bottiglie chiare) tali da danneggiare il prodotto prima della sua immissione in commercio.
L'accusa più grave riguarda proprio l'aver imbottigliato olio raffinato come extra vergine d'oliva. In particolare i marchi vengono accusati di aver miscelato olio di cattiva qualità, prima raffinato (forse deodorato?), insieme con extra vergine. I marchi si sono difesi affermando che non è possibile essere accusati sulla base di un esiguo campione di bottiglie.
Nell'udienza del 6 gennaio scorso, tuttavia, il giudice Seeborg ha dato ragione all'attore, sostenendo che, per procedere, non è indispensabile che venga provato che tutte le bottiglie contenessero olio raffinato ma solo che il campione non rispettasse i requisiti della categoria commerciale olio extra vergine d'oliva.
Altre questioni delicate riguardano l'inganno della provenienza, rendendosi necessario, secondo gli attori, un sistema di tracciabilità che garantisca l'origine e un sistema di etichettatura più chiara che vieti di trarre in inganno il consumatore. Similmente dovrebbero essere bandite le bottiglie chiare e dovrebbe essere garantito che, durante i trasporti, l'olio non subisca shock (termici o luminosi), tali da alterare il prodotto prima della messa in vendita.
Se, al termine del dibattimento, le tesi di Koeller e Kuman dovessero trovare accoglimento, si tratterebbe di un duro colpo per i marchi “italiani”, non solo a causa dell'innalzamento dei costi ma anche dell'immagine.
Si tratterebbe, però, anche di una bella gatta da pelare poiché la autorità americane non potrebbero non tenere conto delle sentenze durante le trattative sul libero scambio Usa-Ue.
L'olio d'oliva, insomma, sempre più al centro del mondo.
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