Libri

L’amarcord di Giuseppe Bonura, con l’aspra dolcezza di un proletariato di origine contadina

Una storia da non perdere, perché è la storia di molti di noi. Lo stile? Un miscuglio unico di profondità, intelligenza, essenzialità, irriverenza, ironia e inventiva

26 aprile 2008 | Sossio Giametta

In questi giorni ho letto due libri e ne sto leggendo un terzo, oltre a pezzi di quelli che mi servono per il lavoro. Non capita spessissimo: ho la lettura faticosa e lenta. Ma qui c’entra il fatto che ho amici che scrivono, soprattutto poeti, e che poi mandano i loro libri.

Io cerco di leggerli, cosa che spesso mi riesce, e di capirli, cosa che spesso non mi riesce, quando si tratta di poesia. Ma ci sono anche i prosatori. Un amico prosatore è Giuseppe Bonura, che è noto sia come romanziere sia come critico serio e severo e, io spero, anche ironico, perché i suoi pezzi di critica, oltre ad essere recensioni competenti, sono pezzi d’arte, che si fanno leggere anche di per sé.

L’ultimo suo libro, che sta avendo buoni riscontri e, gli auguro, buon successo, è Le radici del tempo. Romanzo. Così il titolo, non so se dell’autore o dell’editore (Avagliano, pagine 260, euro 14), sono propenso a credere dell’editore. Perché non è un romanzo e non sono, per me, neanche le radici del tempo, ma un’autobiografia. È il racconto dei primi trent’anni dell’autore. Però questo racconto fa un romanzo, quindi il sottotitolo non è sbagliato nella sostanza.



Si tratta di un libro “dal forte e schietto sapore italiano”, come ha scritto sul "Corriere della Sera" il 19 marzo scorso Antonio Debenedetti (“Autobiografia (senza sconti) di un brontolone”), è il romanzo, poesia e verità, della vita di Giuseppe Bonura. Quasi, mi verrebbe di dire, il romanzo della vita. Perché in fondo le vicende che egli narra sono le vicende di molti, a parte il modo di viverle, che è invece di ciascuno in ogni caso e qui solo dell’autore.

Bonura non è un Mozart della letteratura, nel senso di aver scoperto e praticato precocemente l’arte in cui avrebbe eccelso. Egli ha scoperto la letteratura tardi, quasi per caso, e quasi a rimorchio del giornalismo. Dico quasi perché è vero che ci vogliono sempre delle occasioni per scoprire ciò per cui si è fatti. Però, una volta che queste occasioni si presentano, non si perde più tempo: se si ha una vera vocazione, le si acciuffa e subito si va avanti velocemente. Così appunto è accaduto anche a Bonura. Ma prima della fatale scoperta, ce ne sono di cose! C’è la vita. C’è la vita di famiglia, e anzitutto la storia d’amore del babbo e della mamma.

Il babbo è una guardia di finanza che non si può sposare, nell’epoca in cui mette incinta la fidanzata di diciotto anni senza perdere il posto (il regolamento prevede il compimento dei 28 anni)... Quindi si deve far tutto clandestinamente. Ci sono i caratteri dei genitori, padre siciliano e madre marchigiana (Bonura è nato a Fano, in provincia di Pesaro). Ci sono nonni e zii, grandi personaggi. C’è la fiera povertà e il contrasto dei poveri e dei ricchi, che nei libri di Bonura è un tema ricorrente. Ci sono le storie d’amore infantili, adolescenziali e giovanili, con tanti bei caratterini e caratteri di bambine e di donne soprattutto. C’è, grande sorpresa per me, lo sport. Perché sorpresa? Perché io che ho conosciuto Bonura quand’era a Milano alcuni decenni fa, non l’ho mai sentito parlare dello sport fatto da lui. E poi, da quando ho ripreso a frequentarlo, dopo una lunga interruzione dei nostri rapporti dovuta al mio espatrio (non trovando da insegnare ciò in cui sono abilitato e non essendo più pagato dall’editore in crisi, ora famoso, per il quale traducevo, ho cercato lavoro in Belgio), l’ho sempre visto in preda a una depressione cronica, sempre voglioso di scherzare e ironizzare, ma sempre anche pieno di pensieri e umori pessimistici (Leopardi, suo corregionale, è la sua stella polare), insomma come uno che non sta bene nella sua pelle, afflitto fra l’altro da meteoropatia.

Sapere improvvisamente che ha avuto tante belle storie, d’amore e non d’amore, che ha vissuto tra paesaggi attraenti, in un bel paese tra mare e collina, e in città rinomate, che ognuno vorrebbe conoscere; che era un esperto nuotatore abituato a sfidare il mare in tempesta, e addirittura un giocatore che ha rischiato di finire nelle buone serie del calcio italiano, mi ha sorpreso e mi ha fatto essere contento per lui. Perché alla fine non ha avuto troppo poco dalla vita, almeno non molti possono vantare una pari “gloria” nei loro primi trent’anni.

Senza parlare del seguito, che spero voglia anche raccontare, perché riguarda la sua vita a Milano come giornalista incisivo e scrittore di successo, insomma come uno dei protagonisti della vita letteraria milanese. Non bisogna pensare che si tratti, in questo libro, di cronachismo (“Non ho il gusto della realtà tale e quale. Mi annoia.”) né di autobiografismo celebrativo. Bonura ha un carattere troppo serio, rude e schivo per questo. Non possiamo non citare al riguardo le parole giustissime di Debenedetti: “Anche Bonura, come Fellini, cerca il vero oltre le porte del reale così come appare. Lo insegue in quella regione inesplorata dove la memoria incontra il sogno. È per questa via che Le radici del tempo riescono a restituirci l’aspra dolcezza di un proletariato di origine contadina, quella complessità interiore che nasce non dai capricci borghesi dell’intelligenza, ma dalle ragioni del cuore”.

Ma la cosa più notevole del libro è, secondo noi, lo stile, quel miscuglio unico di profondità, intelligenza, essenzialità, irriverenza, ironia e inventiva, che caratterizza Bonura in tutte le sue espressioni e fa di lui l’artista originale che è, come abbiamo detto, non solo nella narrativa ma anche nella critica, dove, come dicevano gli scolastici, operari sequitur esse.

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