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Nuove varietà per l'olivicoltura italiana, la sfida per il futuro

Nuove varietà per l'olivicoltura italiana, la sfida per il futuro

L'adattabilità delle varie cultivar di olivo alle varie condizioni climatiche e microclimatiche è ancora sottovalutata e sottostudiata. Sei varietà nazionali promettono bene

18 luglio 2025 | 09:00 | T N

Scenari olivicoli sempre più critici, la ricerca che avanza lentamente, un territorio - quello umbro - con una strategia: in occasione di Umbria Jazz, di cui è sponsor, Farchioni 1780 ha fatto il punto su Olive Hub, progetto per la selezione di nuove cultivar, di cui è capofila con Regione Umbria e in collaborazione con Cnr - IBBR e dipartimento DSA3 di UniPg. 

Il 95% della produzione olivicola mondiale è localizzata nel Mediterraneo; l’oliveto Italia consta di 1 mln 400mila ettari (come termine di confronto, si prendano Spagna con 2 mln di ha e Argentina con un’estensione più o meno simile alla superficie della sola Puglia). Numeri questi relativi a un allevamento di tipo tradizionale – 200-220 ceppi/ha, 6x6 – con i ben noti problemi legati a stabilità della produzione, difficoltà di gestione delle operazioni manuali e reperimento manodopera, con i conseguenti alti costi.

Le alternative in termini di impianti più semplici da gestire a livello agronomico e di manualità/meccanizzazione sono date dalla coltura intensiva - potatura manuale semplificata e raccolta con lo scuotitore per 6 tonnellate di olive al giorno (a fronte di una manuale di 400 kg al giorno) - o superintensiva a parete tra 800 e 1500 ceppi/ha, scavallatrici per la raccolta (1 ha/h), riduzione notevole dei costi di produzione ma drastico restringimento delle cv adatte: le più adatte ad oggi sono le spagnole Arbequina e Arbosana e la greca Koroneiki. Risultato? Poca o nulla differenziazione degli oli e perdita di biodiversità, mentre è evidente che nello scenario mondiale l’Italia deve giocarsela su oleico e polifenoli alti. Non è inoltre detto che una cultivar risponderà ugualmente alle condizioni pedoclimatiche: “Una Arbequina, per esempio, in Catalogna potrà contare sul 70% di acido oleico che però scende a 40 in Tunisia – osserva Maurizio Servili (UniPg) -; si avrà un prodotto equivalente a un olio di semi”.

Quindi l’adattabilità rispetto alle attuali condizioni climatiche è un fattore basilare e la ricerca è tesa a individuarlo tra i migliaia di genotipi di cui dispone l’Italia, concentrandosi nell’aumento della biodiversità. Nei 25 ettari sperimentali a Boneggio (Pg), di proprietà di Farchioni, si dovrà attendere ancora qualche anno per verificare quale tra i 2700 semenzali - ora 1700 piante a dimora, da cui 600 di incrocio, poi 270… l’iter è lungo - darà i migliori risultati in quanto a possibilità di meccanizzazione, resistenza a siccità e a Xylella (Cellina di Nardò, Coratina o Carolea sono fortemente sensibili e purtroppo questo ha un peso nell’economia pugliese, che fornisce più della metà della produzione italiana). “Al momento sono 6 le cv per incrocio che promettono bene, da trasferire in vivaio, quindi al mercato, nell’arco di tre-quattro anni”, specifica Servili: “Crescendo si studierà il comportamento a livello agronomico; trovare le più adatte dal punto di vista qualitativo, non solo sensoriale ma salutistico, però richiede dieci anni”. Una via è altrimenti rappresentata dalle varietà locali (ce ne sono 150 a Boneggio): e le sorprese non mancano. Nell’Isola Polvese si riteneva ci fosse solo Dolce Agogia, piante sicuramente antiche poiché sul lago non si verificano gelate che distruggono le coltivazioni: il profilo molecolare ha evidenziato l’origine locale e l’unicità di dieci dei genotipi totali studiati.

Intanto i tempi sono maturi per evoluzioni anche lato consumo, asserisce Giampaolo Farchioni, direttore commerciale dell’azienda di famiglia, secondo il quale gli italiani sono ormai pronti per prodotti di fascia più alta e specializzata (e al TuttoFood di Milano ha presentato tre oli aromatizzati per dolci, al posto del burro): “Ci si muove verso un concetto di target clienti/funzionalità. Anche gli scaffali esteri lavorano su un concetto qualitativo alto e, fermo restando il best value (il giusto rapporto qualità-prezzo percepito), i prodotti più venduti sono tendenzialmente di qualità migliore, che gli italiani riconoscono”. Oggi uno step forward è possibile: si può proporre un olio con determinate caratteristiche tecniche come “quelli per gli sportivi con un pack che con la corretta conservazione garantisca il prodotto, più da delivery diretto che da scaffale, e confezioni tali da far percepire le differenze, senza che siano troppo banali né edonistiche”. 

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