Italia

RISCHIAMO DI ESSERE SEMPRE E SOLO IN VENDITA. L’ALLARME DI FEDERALIMENTARE

E’ un paradosso. Il prodotto alimentare italiano piace e continua a riscuotere successo, in Italia e nel mondo, tuttavia perde colpi sui mercati. La pressione competitiva di altre nazioni si fa avvertire in modo preoccupante. Il calo di produttività, dal 1996 ad oggi, è stato del 3%

07 ottobre 2006 | Ernesto Vania

Il segnale di allarme arriva in occasione della presentazione di uno studio Federalimentare-Ismea in Senato. La produttività del settore, dal 1996 ad oggi è diminuita del 3%. A causa dell’eccessiva frammentazione aziendale, dell’ insufficiente concorrenza nei servizi, di una scarsa tendenza all’innovazione, ma soprattutto per colpa di una finanza non a misura d’internazionalizzazione. Del resto anche il nostro vantaggio competitivo si è ridotto di circa il 15,4 % nello stesso arco di tempo. 16 miliardi di euro dell’export del settore – per quasi l’80% riferiti a prodotti dell’industria e per il 20% a produzioni tipiche – rappresentano appena il 14% del fatturato: equivalgono cioè a quanto gli italiani spendono in un anno per giocare al lotto o per fare i regali di Natale. Come sostiene il Presidente Luigi Rossi di Montelera “l’imperativo per il futuro è aiutare le aziende a crescere. Partendo certamente da un sistema di agevolazione e incentivi, ma affrontando, di concerto con le banche, il nodo della finanza e dei fondi, per una nuova governance della crescita aziendale.”

E’ un paradosso. Il prodotto alimentare italiano piace e continua a riscuotere successo, in Italia e nel mondo. Tuttavia perde colpi sui mercati: alcuni indicatori sono chiari, in questo senso. La pressione competitiva di altre nazioni si fa avvertire in modo preoccupante. Dati alla mano infatti (tenendo conto dell’inflazione alla fonte, ovvero dei prezzi alla produzione), il calo di produttività del sistema alimentare nazionale, dal 1996 ad oggi, è stato del 3%. Nello stesso periodo di tempo Francia e Germania hanno saputo “correre” ad una velocità superiore alla nostra, migliorando la loro posizione nei confronti dell’Italia.
Negli ultimi 10 anni, infatti, il sistema Italia ha perso in competitività circa 13 punti rispetto agli altri Paesi industrializzati. Se proviamo a stimare più nello specifico il comportamento del settore alimentare – avverte il Centro Studi Federalimentare – la perdita di competitività è di qualche punto percentuale superiore: risulta mediamente di 15,4 punti percentuali.
L’alimentare italiano oggi esporta il 14% del proprio fatturato contro il 18% del fatturato esportato in media dall’industria alimentare europea. I 4 punti di differenza non sono pochi, e nei prossimi anni la situazione competitiva potrebbe peggiorare ulteriormente.
Così, Federalimentare, dopo i primi segnali di allarme lanciati a maggio di quest’anno nel corso dell’assemblea di Cibus Parma, torna oggi ad affrontare il problema presentando al Senato il IV rapporto Federalimentare/Ismea intitolato “Il made in Italy alimentare alla prova della concorrenza”. Nello studio vengono analizzate le difficoltà riscontrate dal settore, per meglio individuare, anche in sede politica, le contromisure adeguate per restituire slancio al secondo comparto dell’industria manifatturiera italiana.

I DATI CONGIUNTURALI SONO DISCRETI, MA E’ LA DIMENSIONE STRUTTURALE CHE PREOCCUPA
Nel 2005 il settore agro-alimentare, con i suoi 107 miliardi di euro di fatturato, ha mostrato una crescita del +1,9%: un risultato di segno positivo che replica quello della produzione, cresciuta anch’essa (a parità di giornate lavorative) del +1,7%. L’export, pari a 15.162 miliardi di euro, registra un incremento del 2,7% rispetto all’anno precedente. Anche i consumi alimentari hanno ricominciato a crescere (+1,5%), segnando una ripresa del mercato dopo il calo anomalo dell’anno precedente (-0,3%).
Per la verità le stime relative all’export del 2006 fanno registrare una crescita del +6,0%, così come la produzione, salita a sua volta +1,5%. Segni moderatamente positivi. Che ci inducono a stimare un export di quasi 16 miliardi e un saldo commerciale positivo di ben 3 miliardi di euro (+25%).
L’export 2006 tuttavia sta crescendo a un tasso ancora inferiore a quello complessivo del sistema (+6,9%), e negli ultimi 10 anni – avverte lo studio – il sistema alimentare Italia ha perso in competitività 15,4 punti rispetto agli altri Paesi industrializzati.

“L’industria alimentare italiana – avverte Luigi Rossi di Montelera, presidente di Federalimentare – riscuote un enorme prestigio all’estero e agisce su nicchie di mercato di altissima qualità comportandosi, tuttavia, come una Ferrari che procede al ritmo di un’utilitaria... I nostri 16 miliardi di euro di fatturato sui mercati esteri equivalgono a quanto gli italiani spendono per i regali di Natale o al fatturato per i soli prodotti alimentari della catena distributiva Metro in Germania. Infatti se guardiamo al peso dei primi 3 gruppi distributivi UE ci accorgiamo che il loro fatturato è pari a oltre 200 miliardi di euro. Il doppio del valore del comparto alimentare italiano. Lo stiamo ripetendo da tempo: lo slogan ‘piccolo è bello’ è ormai tramontato. In assenza di politiche capaci di agevolare la crescita dimensionale delle aziende e di favorire l’innovazione e la concentrazione nell’intera filiera agroalimentare nazionale, i nostri prodotti reggeranno con sempre maggiore fatica la concorrenza dei Paesi che sembrano aver innescato una marcia in più. Del resto le nuove politiche per rilanciare la competitività del comparto non possono non tenere conto del fatto che quasi l’80% del fatturato da export è relativo a prodotti dell’industria e solo il 20% a produzioni tipiche e di nicchia”.

“Uno dei nodi centrali sui quali si può e si deve agire – continua Luigi Rossi di Montelera – oltre agli incentivi alle imprese e alle agevolazioni previste in finanziaria, è la mancanza di adeguati strumenti finanziari per fornire anche agli imprenditori del nostro Paese la possibilità di competere sui mercati globali. Non si fa internazionalizzazione con i soli prodotti, infatti, la si fa anche con una finanza a misura di mercato globale. Se il Governo non interviene agevolando la nascita di adeguati strumenti (come Fondi di private equity e i Fondi pensione), se le banche non fanno, con responsabilità, la loro parte, rischiamo di vedere le grandi aziende alimentari italiane sempre e solo in vendita e non all’attacco. Perché qui da noi, mentre i nostri concorrenti stanno colonizzando il mondo, mancano i presupposti finanziari e il capitale perché questo avvenga. Del resto il problema è reso ancora più grave dalla fase di transizione proprietaria alla quale si assisterà con sempre maggiore frequenza nel futuro prossimo, se è vero che l’età media di chi controlla, attraverso la proprietà, le aziende in Italia è di ben 61 anni, mentre il 22% ne ha addirittura più di 71”.

ATTEGGIAMENTO RESPONSABILE SUL FRONTE DEI PREZZI
Nonostante le difficoltà che incontra, il settore, sul mercato interno, continua a svolgere bene la propria parte. Dal 1996 ad oggi i prezzi alla produzione dei prodotti alimentari trasformati sono cresciuti del +9,9%, contro il +19,1% dei corrispondenti prezzi al consumo e contro il +25,2% dell’inflazione nazionale. I meriti calmieratori e i sacrifici sopportati dal settore non possono essere ignorati. Risulta chiaro tuttavia che l’alimentare ormai è ai limiti dei margini di ottimizzazione, a parità di struttura produttiva, e necessita quindi di una scossa dei propri parametri di produttività, dimensione ed innovazione, per ampliare i suoi spazi di mercato e i suoi margini di contribuzione.

PRODUTTIVITÀ STAZIONARIA
La ricerca reca un altro segnale da non sottovalutare: in cinque anni siamo scesi dal 7° all’8° posto nella graduatoria dei Paesi esportatori di prodotti agroalimentari, rimanendo dietro a USA, Francia, Olanda, Germania, Brasile, Spagna e Belgio. Sopravanziamo, oramai di pochissimo, Canada, Cina e Australia, paesi determinati, anche sulla base della maggiore estensione territoriale, a far sentire presto la propria voce. Anche rispetto alla quota di commercio mondiale complessiva, il contributo dei nostri prodotti agro-alimentari scende in maniera preoccupante, e si ferma al 4%. Quasi la metà rispetto a Francia, Olanda e Germania, che sono attestate al 7-8% del totale.
Come se non bastasse, il Centro Studi Federalimentare avverte che la produttività dell’industria alimentare (data dal rapporto esistente tra valore aggiunto e unità di lavoro), dal 1996 al 2005 è diminuita complessivamente del – 3%, mentre, in parallelo, il totale dell’industria manifatturiera ha registrato un limitato +0,8%.
Si capisce allora perché la redditività del settore langue ed è destinata, a causa di una ridotta concorrenza anche dei servizi, a diminuire ulteriormente in futuro, come delineato nel III Rapporto Federalimentare-Ismea presentato nel 2005.

L’ALIMENTARE RIDUCE IL PROPRIO PESO SULLA QUOTA DI EXPORT TOTALE DEL PAESE
Il Rapporto spiega che il settore alimentare – riguardo alla sua proiezione export – lo scorso anno, con un +2,7%, ha fatto peggio del resto dell’industria nazionale (la quale ha messo a segno una crescita del +4%) non riuscendo sfruttare la crescita media del commercio mondiale pari, dal 1996 ad oggi, al 7% annuo. Un’opportunità che altri, invece, non si sono fatti sfuggire.
L’export alimentare, dunque, perde punti rispetto all’export totale del Paese (passando da un’incidenza del 5,4% nel 2003 ad una del 5,2% nel 2005) e rimane ancorato alla soglia, che sembra orami invalicabile, del 14% rispetto al fatturato totale del comparto. La media europea –come citato prima – è pari invece al 18%.
L’Italia, Paese simbolo dell’agro-alimentare nel mondo, esporta dunque meno, in percentuale, ma anche in valore assoluto, di molti suoi concorrenti europei.
Va inoltre registrata, da un lato, un’obiettiva difficoltà a crescere in termini qualitativi da parte di prodotti che appaiono già “maturi” e al top da questo punto di vista, e, dall’altro lo scarso investimento complessivo in innovazione e ricerca indispensabile per compiere balzi in avanti rispetto alla concorrenza. Purtroppo si tratta di una situazione che interessa tutto il Paese: negli ultimi cinque anni, la componente costituita dal progresso tecnologico ha influenzato il PIL italiano solo per il 20% contro una percentuale che sale al 55% in Francia e al 90% in Germania.

ABBIAMO UNA SPECIALIZZAZIONE MEDIO-ALTA IN 18 COMPARTI
Lo studio realizzato da Federalimentare in collaborazione con Ismea arriva a individuare i nostri punti di forza e, a fianco, i Paesi che insidiano il nostro primato nel settore alimentare. Lo studio si serve di un complesso sistema di indici che valuta il livello di specializzazione dei principali Paesi esportatori di prodotti agroalimentari, ma anche la somiglianza effettiva (qualitativa) dei prodotti stessi e le differenze imposte dal prezzo di commercializzazione.
Risulta che, sui 46 comparti presi in esame, il nostro livello di specializzazione è molto alto in 18 di essi: maggiore è la specializzazione e l’effettiva “unicità” del prodotto, minore risulta il rischio di venire insidiati dalla concorrenza.
L’Italia si dimostra dunque particolarmente agguerrita in 7 comparti in cui la nostra specializzazione è molto alta: 1) salami, prosciutti e altre carni salate o affumicate; 2) pasta, prodotti da forno e altri cereali trasformati; 3) preparazioni e conserve di ortaggi; 4) vino, birra, liquori e altre bevande fermentate; 5) altre semole e farine di cereali; 6) formaggi; 7) oli di oliva vergini, extravergini, raffinati, oli di soia, girasole e mais. In altri 11 comparti (che includono frutta, succhi di frutta, caffè, cioccolato, riso ecc…) la nostra media specializzazione ci pone invece a maggiore rischio concorrenza da parte di quei Paesi che – come Brasile, Cina, Belgio, Spagna e Germania – hanno raggiunto o consolidato in questi settori una specializzazione maggiore.

ECCO I NOSTRI VERI COMPETITORS, PRODOTTO PER PRODOTTO
I nostri maggiori competitors europei – quelli cioè con modelli di specializzazione simili ai nostri – sono soprattutto Spagna e Francia e, per alcuni comparti, Belgio e Germania. Sul fronte extraeuropeo invece ci confrontiamo con i modelli di Cina (per l’ortofrutta) e Australia (soprattutto per le bevande alcoliche).
In particolare, sono effettivamente concorrenti del nostro Paese nei settori di punta:
1. per salumi, prosciutti e altre carni salate (l’Olanda che produce carni di maiale lavorate e prosciutti, il cui costo è decisamente inferiore al nostro)
2. per prodotti da forno (il Belgio)
3. per ortaggi preparati e conservati (la Cina e la Spagna)
4. per le bevande alcoliche (soprattutto l’Australia, che sul fronte del vino c’insidia sul mercato USA, un po’ meno la Francia, più specializzata negli spumanti, e la Spagna, che esporta vini di qualità inferiore a quelli italiani)
5. per le altre semole e farine di cereali (il Canada e la Francia)
6. per i formaggi (soprattutto la Francia, che vanta un livello qualitativo molto alto, ma anche la Germania, l’Olanda e l’Australia)
7. per gli oli di oliva (l’unico concorrente rimane la Spagna).

LE ROCCAFORTI DEL FOOD&BEVERAGE ITALIANO
Il rapporto Federalimentare-Ismea analizza anche l’andamento del commercio con l’estero nel periodo 2000-2004, individuando i nostri principali clienti e distinguendo le performance tra le esportazioni complessive del settore agroalimentare e quelle dei prodotti di punta che costituiscono il Mady in Italy a tavola.
Dallo studio emerge, in linea generale, che dodici Paesi coprono circa il 79% del valore delle esportazioni del settore agro-alimentare.
Al primo posto di questa classifica si trova la Germania: le esportazioni dell’industria alimentare sono state pari a 2,8 milioni di euro. I prodotti Made in Italy nel periodo 2000-2004 sono cresciuti del 19%: un tasso in linea con quanto registrato dal resto del mondo.
Discorso analogo per la Francia (export pari a 1,8 milioni di euro). Dal 2000 al 2004 l’incremento del Made in Italy nella repubblica transalpina è stato del 10%: un tasso in linea con le importazioni alimentari francesi dal resto del mondo, ma inferiore a quello segnato dal totale agroalimentare italiano (+21%).
Migliori i risultati relativi agli scambi con gli Stati Uniti: 2 miliardi di euro di export, con un +10% nel periodo 2000-2004. Gli USA si confermano come il cliente più attento ai prodotti di eccellenza, che rappresentano circa l’80% del totale dei prodotti agroalimentari importati. Anche la Gran Bretagna rappresenta un mercato aperto al nostro Paese e molto qualificato: il valore delle esportazioni è stato di 1,5 miliardi di euro. Qui i campioni dell’italian food registrano una crescita superiore all’export alimentare complessivo del nostro Paese e a quello del resto del mondo (+19% contro +17% e +16%).
Dal 2000 al 2004 la Spagna si è distinta come una vera e propria opportunità per l’Italia, con incrementi del nostro export di tutto rispetto: + 64% per il complesso dei prodotti simbolo del made in Italy, e +111% per l’agroalimentare italiano nel suo complesso.
Situazione simile per la Svizzera, il cui valore dell’export è stato di 687 milioni di euro: se il totale agroalimentare dall’Italia ha registrato un + 54%, il cosiddetto Made in Italy alimentare ha visto crescere la propria quota del 14%.
In Belgio l’incremento dei campioni del food di casa nostra è stato del 27% contro il +17% del totale delle importazioni agroalimentari, mentre in Olanda è stato del 29% contro il +16%. In Grecia e in Austria, invece, il Made in Italy cresce meno delle importazioni dal mondo: rispettivamente + 25% e +30%, contro il 32% e il 31%.
Anche il Canada rappresenta un mercato in crescita: nel 2005 il valore dell’export è stato di 337 milioni di euro, mentre le importazioni dal resto del mondo sono scese del 3%. In netta controtendenza appaiono i flussi dall’Italia: +13% quelli complessivi, che diventano +15% se si considerano i prodotti del gruppo Made in Italy.
Il Giappone, infine. Il 75% dei prodotti agroalimentari italiani importati nella terra del Sol Levante appartiene alla lista dei campioni del food di casa nostra. Se la quota dell’export rimane ancora limitata (1,2% del totale per un valore di oltre 420 milioni di euro), la crescita in questo periodo è stata del 12%.
Lo studio dunque ha messo in rilievo un dato che ha sorpreso gli stessi ricercatori: il Made in Italy alimentare, ovvero la parte più export-oriented e maggiormente specializzata della nostra produzione, non ha compiuto il balzo in avanti aggiuntivo che ci si aspettava. Anzi, forse a causa degli exploit ottenuti in passato, non regala spunti di eccellenza, dimostrandosi spesso, nei mercati esaminati, meno dinamico dell’agroalimentare complessivo del Paese.

ANCORA POCO DINAMICO IL FUTURO DELL’EXPORT ITALIANO DA OGGI AL 2015
Il rapporto, infine, delinea le prospettive future per la competitività dei prodotti agroalimentari del nostro Paese. Lo scenario indicato è preoccupante: grazie al diffondersi di processi di liberalizzazione dei mercati, i prezzi mondiali scenderanno del 2,4% e quelli europei dell’1,6% all’anno, mentre la produttività del lavoro dell’industria alimentare sarà ridotta, se le rese agricole rimarranno stabili, al + 2,5% in dieci anni.
La redditività del settore agricoltura, silvicoltura e pesca diminuirà inoltre del 2% in termini di valore aggiunto nominale. Situazione migliore, ma non di molto, per l’industria alimentare. Anche il rapporto export-import non mostrerà risultati brillanti. Aumenterà l’approvvigionamento all’estero di materie prime agricole, mentre si dovrebbe registrare una riduzione dell’avanzo commerciale dell’industria alimentare. Ad ogni modo, l’aumento specifico dell’export agroalimentare non sarà rilevante.
Dalle proiezioni formulate nel rapporto emerge il mantenimento della specializzazione italiana nelle filiere delle produzioni mediterranee (ortofrutta e vino in particolare) e dei derivati da cereali, e il rafforzamento delle filiere del latte e delle carni. In crescita bevande, acque minerali, caffè e cioccolata.

Fonte: Federalimentare