Economia
Il lavoro degli stranieri, tutte le problematiche, tutto il da farsi
Intervista a Monica Mc Britton: c'è la necessità di una legislazione che superi la logica emergenziale. L'offerta e la domanda di lavoro immigrato in molti casi non si incontrano per ragioni politico-giuridiche, motivo per cui si innesca il circuito perverso della clandestinità
08 marzo 2008 | Antonella Casilli
In alcuni settori, in particolare quello agricolo, l'apporto lavorativo degli immigrati è di fondamentale importanza nella catena produttiva atteso che vi sono come è noto lavori per i quali è difficile reperire manodopera di cittadini residenti.
Abbiamo incontrato, per parlare del fenomeno migratorio, la professoressa
Monica Mc Britton aggregata di diritto del Lavoro nell'Università del Salento.
Professoressa vorremmo parlare con lei del quadro normativo nazionale che sottende la strategia dell'inclusione sociale...
Per quanto riguarda il fenomeno migratorio l'assetto legale, in realtà mira all'esclusione e non all'inclusione. I problemi del fenomeno migratorio cominciano dalla negazione del carattere strutturale del fenomeno stesso. In una misura maggiore o minore, è questo il postulato che ha sempre retto la legislazione italiana in materia, riducendo l'immigrazione a una questione di emergenza e di ordine pubblico. Tale logica ha contribuito a vedere gli immigrati o come potenziali delinquenti o come povera gente che scappa da condizioni disastrate di vita. Certo, quest'ultimo elemento è spesso presente, ma, come dimostra in una prospettiva sociologica un grande studioso dei fenomeni migratori, Saskia Sassen, le cose sono un po' più complesse e comportano la necessità di una politica e di una legislazione che superi la logica emergenziale. Con ciò non si vuole negare che il divario di benessere materiale fra il mondo sviluppato e quello in via
di sviluppo sia enorme e, anzi, tenda a diventare sempre maggiore. Ã
proprio questa tendenza il punto cruciale, poiché la globalizzazione non solo ha distrutto economie di sussistenza come quella dell'agricoltura locale in favore del mercato internazionale, con tutte le conseguenze negative del caso, ma nello spostare ampi settori di produzione manifatturiera per sfruttare il basso costo della manodopera locale ha inserito molti lavoratori e molte lavoratrici nel mercato mondiale, anche se in forma del tutto subalterna.
Parlando del caso italiano come vede, alla luce delle sue esperienze, l'ingresso dei lavoratori in Italia?
In Italia la porta per l'ingresso regolare nel paese è molto stretta; inoltre, anche se l'ingresso è regolare, la disciplina legale e, ancor di più, la sua prassi applicativa rendono difficile rimanere nella regolarità , e l'irregolarità , evidentemente, significa emarginazione. E ciò è solo l'inizio, poiché sono anche da esaminare le politiche di integrazione praticate nonché il trattamento riservato ai familiari, in particolare la discendenza. Su questi ultimi punti tornerò più tardi.
Nel caso italiano, il primo accesso regolare al territorio nazionale è sottoposto a un'inutile e kafkiana procedura che sovrappone l'autorizzazione al lavoro alla programmazione di flussi d'ingresso. Tale spuria commistione tra i due strumenti per controllare gli accessi comporta che il datore di lavoro debba richiedere un nulla-osta all'assunzione di uno straniero che si trova ancora nel suo paese di origine, ma tale richiesta deve essere compresa nell'ambito delle quote flusso determinate complessivamente dal governo. Inoltre, queste quote sono sempre quantificate in misura consistentemente inferiore, non solo al potenziale di espulsione dei paesi di provenienza, ma anche alla domanda affiorante dal sistema produttivo, come risulta dalle richieste avanzate dalle associazioni imprenditoriali. Vi sono, quindi, un'offerta e una domanda di lavoro immigrato che non possono incontrarsi unicamente per ragioni politico-giuridiche e ciò, naturalmente, innesca il circuito perverso della clandestinità .
L'ingresso clandestino, a sua volta, produce un forte indebitamento dello
straniero, che può avvenire nei confronti dei propri parenti e amici, ma anche delle reti di criminalità organizzata. Non potendosi collocare
nell'ambito del mercato del lavoro regolare, questo stesso straniero farà fatica a uscire dal circuito clandestino e sarà costretto ad aumentare l'esercito dei lavoratori occupati nell'economia sommersa.
Certo, in tale mercato, principalmente nel mezzogiorno, ci sono anche
tanti italiani (e anche neocomunitari), ma questi non corrono il rischio di essere espulsi, mentre l'extracomunitario - come è noto - sì. Ma l'indebitamento non consente la via di ritorno: anche l'immigrato che prenda consapevolezza del fallimento del suo progetto immigratorio non può tornare indietro.
Quali diritti specifici dovrebbero essere concessi ai cittadini di paesi terzi che lavorano temporaneamente nell'Unione?
Tra i requisiti per ottenere il permesso a tempo indeterminato, rilevante è l'abrogazione del requisito della titolarità di un permesso di soggiorno «per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi». Tale requisito, infatti, era stato interpretato in modo restrittivo: in primo luogo, le questure - sulla base di circolari ministeriali - non ritenevano sufficiente che fosse posseduto al momento della presentazione della domanda, ma ne richiedevano il possesso per tutti i 5 anni. Dopo alcune pronunce dei
Tribunali amministrativi regionali che avevano annullato il provvedimento di rifiuto della carta di soggiorno, il Ministero degli interni, con una nuova circolare, aveva fatto marcia indietro. Inoltre, sempre ai fini della maturazione del requisito in discorso, secondo un'altra circolare, non potevano essere presi in considerazione i permessi di soggiorno per lavoro a tempo determinato.
La nuova disposizione ha posto fine alle controversie capovolgendo la prospettiva: anziché richiedere il possesso di un permesso di soggiorno che consenta un numero indeterminato di rinnovi, da un lato, richiede che lo straniero sia «in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità » elencando, dopo, i permessi che non consentono l'accesso al beneficio: per motivi di studio o formazione professionale; a titolo di protezione temporanea o per motivi umanitari o per attesa di una decisione in merito a una richiesta in tal senso; per asilo o per attesa del riconoscimento dello status di rifugiato (comma 3). La
norma, però, prevede che i periodi di fruizione di tali permessi possano essere conteggiati ai fini del raggiungimento della soglia dei 5 anni (arg. ex comma 5). Si dimostra, così, una maggiore consapevolezza delle dinamiche di stabilizzazione degli stranieri sul territorio e, finalmente, si tiene conto della dimensione temporale di questo processo.
Altri requisiti sono quelli del possesso di un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari (se la richiesta del permesso in discorso riguarda anche questi) e della disponibilità di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale in materia di edilizia residenziale oppure che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale.
I titolari di questi permessi possono essere espulsi solo nelle ipotesi previste dal comma 10: l'elenco delle causali è da ritenersi tassativo, sia per la specialità della disposizione, sia alla luce del seguente comma 13 che autorizza «la riammissione sul territorio nazionale dello straniero espulso da altro Stato membro dell'Unione europea titolare del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo [?] che non costituisce un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato».
Un difficile compromesso tra l?introduzione di una maggiore libertà di circolazione in ambito Ce anche dei lavoratori extracomunitari e il mantenimento di un controllo degli Stati membri sull'accesso nel proprio territorio dei cittadini extracomunitari ha dato luogo a una normativa complessa che, in Italia, è stata recepita introducendo, nel T.U., un art. 9-bis che reca come rubrica: Stranieri in possesso di un permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo rilasciato da altro Stato membro. I destinatari della nuova norma possono accedere al territorio italiano per motivi di studio o di formazione professionale, ovvero «soggiornare per altro scopo lecito previa dimostrazione di essere in possesso di mezzi di sussistenza non occasionali, di importo superiore al doppio dell'importo minimo previsto dalla legge per l'esenzione dalla
partecipazione alla spesa sanitaria e di una assicurazione sanitaria per il periodo del soggiorno». Possono, altresì, svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo «ai sensi degli articoli 5, comma 3-bis, 22 e 26» dello stesso T.U. Questo non chiarissimo rinvio ad altre norme del T.U. novellato e, in particolare, al comma 3-bis dell'art. 5, che assoggetta il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato alla preventiva stipulazione del contratto di soggiorno e dispone la durata massima dello stesso permesso, fa sì che questi lavoratori, sotto i profili indicati, siano assoggettati alle regole generali, comuni agli altri lavoratori extracomunitari. Un trattamento di (relativo) favore, invece, risulta, da un lato, dal mancato richiamo dell?art. 21, comma 1, che, come regola generale, limita gli ingressi nel territorio nazionale nell'ambito delle quote e, dall'altro, dall'espressa previsione del comma 5 della nuova norma dell'esonero dall'obbligo del visto. Se ne deve dedurre che coloro che hanno ottenuto in altro paese dell'Unione un permesso di lungo periodo possono accedere nel territorio italiano senza visto e al di fuori delle quantità di ingressi determinate dai decreti flussi.
Come può facilmente vedersi, siamo ben lontani da una libera circolazione di questi lavoratori all'interno dell'Unione.
à anche proposto un allungamento della durata massima del permesso di soggiorno, sia nelle ipotesi di lavoro subordinato o autonomo a tempo indeterminato, sia in quelle di lavoro a tempo determinato, per le quali la durata del permesso di soggiorno è, comunque, significativamente superiore alla durata del contratto. In tal modo certamente la norma tiene conto della concreta possibilità di una successione di contratti di breve durata che, nel loro insieme, rappresentano un inserimento nel mercato del lavoro. Occorrerebbe, però, prevedere anche misure che impediscano che la maggiore durata del permesso di soggiorno rispetto a quella del contratto di lavoro sia un incentivo a occultare rapporti di lavoro effettivo ormai non più necessari per la regolare presenza nel territorio nazionale.
(Fine della prima parte dell'intervista. Il seguito è programmato per il numero di sabato 15 marzo)