Economia

DOVE VA L’AGRICOLTURA ITALIANA? QUALE FUTURO LA ATTENDE?

Non è facile, secondo il professor Dario Casati, trovare una risposta unica. Il modello lombardo, molto diverso da quello di maniera a cui si è abituati, può essere in grado di fronteggiare con successo il mercato del nuovo millennio. Occorre affrontare a viso aperto la sfida della competitività, facendo ricorso a forniture di servizi e tecnologie

03 gennaio 2004 | Dario Casati

Dove va l’agricoltura italiana agli inizi degli anni Duemila? Ma, soprattutto, quali sono le sue prospettive in un contesto economico e sociale in continua evoluzione alla luce dei cambiamenti in atto nelle politiche agrarie e sulla base dei suoi punti di forza e debolezza? Non è facile trovare una risposta univoca a questo blocco di questioni che, sul tappeto da tempo, non sembrano decisamente nelle condizioni di ricevere indicazioni precise.

Il contesto esterno ad essa è attualmente condizionato da una serie di profondi cambiamenti legati in parte a fenomeni sociali e politici generali e in parte a evoluzioni specifiche del settore. Le grandi forze del cambiamento, attive sul finire del XX secolo, continuano ad esercitare i loro condizionamenti: l’internazionalizzazione dei mercati, la creazione di uno spazio competitivo globale, le tensioni geopolitiche emergenti, la grande volatilità dei fenomeni economici sono tutti fattori determinanti di un contesto in cui appare sempre più difficile inserire l’agricoltura della vecchia Europa. Sul piano europeo, allineandosi a tendenze mondiali ormai accettate e sancite dalle logiche Gatt e Wto, si riducono le protezioni e si cambiano gli obiettivi anche con velocità superiore alle aspettative. I tradizionali obiettivi della Pac sono stati sostituiti, sul finire degli anni Novanta da quelli proposti per Agenda 2000, per poi essere ulteriormente modificati nel corso dell’attuale discussione sulla revisione di medio termine della Pac.

Il cambiamento fondamentale delle logiche di sostegno, tuttavia, è a livello di una rivoluzione incompiuta, perché questo pur riducendosi in termini reali anche per far posto ai nuovi Paesi membri dell’Unione europea da qui al 2014, rimane fortemente ancorato al sussidio alle produzioni, sia pure nella versione del disaccoppiamento che ora viene proposta.
Le risposte a questi cambiamenti sono tuttavia deboli sul piano delle politiche. La Pac propone misure di accompagnamento e di indirizzo verso nuove strategie di diversificazione che non sono sostenute da risorse significative, nel nostro Paese l’enfasi sui prodotti tipici tradizionali e di qualità rischia di far perdere di vista le dimensioni dei rispettivi mercati e, soprattutto, lo stretto legame tecnico-produttivo che unisce questi prodotti, essenzialmente legati a nicchie, alla grande tradizione agricola delle maggiori aree produttive del Paese.

Sui circa 45 mila milioni di euro di produzione (2001) poco più del 60 per cento è attribuibile a prodotti vegetali e il resto a quelli animali, ma i grandi prodotti di pregio, che rappresentano attorno al 15 per cento di questo valore, sono ottenuti in gran parte da quelle materie prime agricole di base di cui il nostro agroalimentare non può fare a meno, ma che sembrano trascurate nella considerazione generale.
Al contrario, il sistema agricolo, nel tentativo di sottrarsi a un’alea sempre più forte legata all’evoluzione delle politiche, ha colto questo nesso e con le sue forze ha avviato un processo di ristrutturazione imponente, autonomo, costoso in termini di investimenti e di impiego di risorse.
Attualmente, nella maggior parte dei comparti produttivi agricoli è in atto, ad esempio, una forte concentrazione che fa sì che fra il 75 per cento e l’80 per cento della produzione derivi dal 15-20 per cento delle aziende, ma in settori come quello suino da meno del 5 per cento.

Accanto a ciò si configura un’altrettanto spinta localizzazione delle produzioni unita a una forte specializzazione territoriale. Dal punto di vista strutturale i dati del Censimento, al di là di futili lamentele più estetiche che sostanziali sul numero di aziende perse, indicano che la concentrazione spinta è la risposta della parte più viva e professionale della nostra agricoltura al nuovo contesto competitivo. I dati lombardi, e non dimentichiamo che la Lombardia è la prima regione agricola del Paese per volume di produzione e per produttività dei fattori, mostrano che le dimensioni economiche e fisiche delle aziende agricole crescono e tendono a portarsi sugli standard europei.
Ciò significa che gli agricoltori lombardi hanno scelto di affrontare a viso aperto la sfida della competitività, combattendo con le armi opportune, ma ciò richiede la messa a disposizione di un paniere di interventi legislativi, di supporto, e soprattutto di fornitura di servizi e di tecnologia che aiuti in questo difficile compito. E’ un modello agricolo molto diverso da quello da cartolina che viene proposto, ma è quello che può affrontare il mercato degli anni Duemila con speranze fondate di successo, al di là della momentanea benevolenza dell’opinione pubblica o dei decisori politici.
L’immagine e la sostanza, in sintesi, devono unirsi per costruire un sistema in grado di favorire la promozione di tutto il nostro agroalimentare.


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