Cultura

Può l’utopia salvare le sorti del mondo?

E' una forza umana positiva, ma può anche rivelarsi nel contempo un'espressione malsana e fatale. Le rivoluzioni - sostiene il filosofo Sossio Giametta - non servono, nemmeno quando incarnano nobili ideali. L'uomo non è mai padrone di sé, come ingenuamente crede di essere

03 aprile 2010 | Sossio Giametta



L’utopia, in quanto aspirazione a un traguardo ideale, è positiva, come la lotta stessa che si fa per raggiungerlo o avvicinarvisi. Come tale, corrisponde a una bella disposizione umana, senza la quale all’uomo mancherebbe qualcosa di importante per il suo progresso. In questo caso essa si può dire sana. Purtroppo, può essere anche malsana, e spesso lo è, per la fatale inclinazione degli uomini, rilevata già nell’antichità, a credere possibile tutto quello che desiderano.

L’utopia è malsana quando salta l’ordine delle cose, entro il quale dovrebbe essere concepita e perseguita, quando cioè, nel bramare e perseguire la meta, non si tiene conto dei condizionamenti della vita e della complessità del reale, insomma di sua maestà la Realtà. In tal caso si pecca infatti di di superficialità, presunzione e fanatismo. Qualunque cosa si faccia allora, si può essere sicuri che la vendetta delle cose e del mondo, per la maldestra intrusione e importuna manomissione, non si farà attendere.


Le rivoluzioni, per quanti nobili ideali incarnino e anche realizzino o mettano sulla via della realizzazione, sono sempre esplosioni di violenza provocate da tali brame e fanatismi, che prendono per così dire la mano agli ideali. In quanto tali, mettono capo a un mattatore, che può chiamarsi Cromwell, Napoleone o Stalin. E ciò per la stessa ragione per cui una palla scagliata contro un muro rimbalza all’indietro con la stessa forza.

È dunque un errore ritenere, come ritengono per esempio molti comunisti odierni, che l’avvento di Stalin, affossatore a loro avviso della rivoluzione comunista, sia stato un caso sfortunato, un incidente di percorso, che si sarebbe anche potuto non verificare o evitare. Stalin, come già Napoleone, è stato un restauratore dei diritti della realtà, che non concede all’uomo più di tanto. Almeno immediatamente. Si può sempre sperare nel futuro. A ciascuno di stabilire se la spesa valga l’impresa, sebbene poi le cose accadano per forza propria e non certo per la conclusione che se ne trae. Comunque in questo sta veramente la differenza tra comunismo e fascismo o nazismo, che viene di solito riposta in tutt’altre cose che non c’entrano affatto: i disastri provocati da fascismo e nazismo esprimono una fine, una chiusura, mentre quelli provocati dal comunismo, certamente non minori, anzi per durata e natura maligna maggiori, possono esprimere un’apertura, un nuovo cominciamento, possono essere una promessa per l’avvenire.

L’errore che si commette in questi casi consiste nell’ignorare l’esistenza autonoma, cioè relativamente indipendente dagli accadimenti esterni, dei grandi organismi, invisibili ma realissimi, che includono e sovrastano gli uomini, come la specie, le civiltà, le società e via discorrendo. Per questa sua fatale subordinazione, l’uomo non è sui compos, non è padrone di sé, come ingenuamente crede di essere. Egli crede di potere, solo per il fatto di volerlo e di impegnarvisi, cambiare il mondo, come si dice. In realtà è soggetto a forze e derive storiche che passano al di sopra della sua testa e rimangono in genere ignorate, vengono subìte e magari pagate a carissimo prezzo, ma ciò nonostante ignorate o equivocate.

Karl Löwith, in La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, dice: “Chi vuole cambiare il mondo, chi lo vuole diverso da com’è, non ha ancora cominciato a filosofare: perché scambia il mondo per la ‘storia’ del mondo, e quest’ultima per una realtà fatta dall’uomo”.

Ci sono state nel Novecento le due guerre mondiali: cataclismi e disastri senza pari nella storia dell’uomo. Gli uomini le hanno subìte e pagate con distruzioni e sofferenze inenarrabili e con più di cento milioni di morti. Ma ancora non si sono resi conto del perché. Nella ricerca delle cause, gli storici le attribuiscono ora a questo ora a quell’avvenimento. Non capiscono che sono stati i colpi di coda, gli spasimi finali della Kultur europea. Essa era cominciata e si era sviluppata col cristianesimo, trasformandosi poi nella civiltà multicefala degli Stati europei, emancipatisi a poco a poco dallo strapotere della Chiesa.

Gli storici non capiscono che le due guerre sono state gli esiti, il precipitato di una crisi fatale, collegata ad avvenimenti cominciati duemila anni prima. Così, anche ora, non capiscono che l’Europa ha ormai perso il ruolo di protagonista mondiale, esercitato, Inghilterra in testa, fino alla seconda guerra mondiale, e non è più in grado di organizzarsi, reagire e funzionare come prima o al modo degli Stati Uniti. Quasi tutti gli europei si illudono che l’Europa possa ancora “risorgere” e sostenere un grande ruolo nella futura storia del mondo, e ciò sebbene tutte le vicende susseguitesi dalla fine della seconda guerra mondiale dimostrino il contrario.

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