Cultura

INTERVISTA A LAURA BOSIO, NARRATRICE DELL’ANIMA

"Scrivere - dichiara - equivale a vincere resistenze, nel tentativo di conseguire una perfezione stilistica che considero anche etica"

27 settembre 2003 | Luigi Caricato

Edito da Mondadori, il romanzo Le ali ai piedi ha incontrato i pieni favori di pubblico e critica. Laura Bosio, l’autrice, già lavora a un nuova opera di narrativa. Nel frattempo ha ultimato da poco un libro dedicato a santa Teresa di Lisieux, la cui uscita è fissata per il mese di aprile. La incontriamo per curiosare nel “laboratorio” creativo di una tra le scrittrici più raffinate e profonde del nostro tempo.

Il tuo esordio da narratrice avviene nel 1993 con “I dimenticati”, edito da Feltrinelli; ma già nel 1987 era apparso sulla rivista “Paragone” il tuo primo racconto. In questa lunga distanza di tempo tra i due lavori, quali percorsi di formazione e approfondimento hai compiuto?

Ho scritto molto, prima e dopo il racconto uscito su “Paragone”, che si intitola Il direttore della biblioteca. Però soltanto con I dimenticati ho sentito di essere pronta alla pubblicazione. Credo che a frenarmi - ma visti i risultati, dovrei dire ad aiutarmi - sia stato il mio lavoro di lettore editoriale. Leggere i manoscritti degli altri mi ha obbligato ad acquisire una distanza critica anche dai miei testi, a porre anche a me stessa alcune domande, per esempio: dove mi sono sbagliata? Perché? Che cosa non va in questa parola? Ho imparato in qualche modo a essere il mio primo lettore, o forse mi illudo che sia così…
Non so se esista la “facilità di scrittura” e comunque io non ne ho esperienza. Per me scrivere significa lavorare molto, vincere resistenze, correggere con accanimento, migliorare con insistenza, forse per raggiungere una impossibile perfezione stilistica, che io considero anche etica.

Al romanzo “I dimenticati” è seguito nel 1997 il romanzo-saggio “Annunciazione”, edito da Mondadori. Si è trattato di un approccio del tutto nuovo, forse inaspettato. Come mai questo cambiamento di fronte, questo registro stilistico non più in linea con il lavoro precedente?

Non penso che si tratti di un vero cambiamento, piuttosto di un’evoluzione. I dimenticati e Annunciazione hanno in comune lo scandaglio di un tema che finora è stato centrale nel mio lavoro narrativo, quello della paura. Nei Dimenticati era la paura di sbagliare incarnata in una ragazza, Livia; in Annunciazione, la paura di Maria davanti all’Angelo. Io ho un’idea attiva della paura, sono convinta che non inibisca l’azione, ma che al contrario la alimenti. Chi ha il coraggio di attraversare la paura ottiene una doppia vittoria: sulla paura e su di sé. Quello che si è aggiunto, in Annunciazione, è l’apertura all’aspetto religioso…

Hai avviato forse una ricerca personale che ti ha fatto prendere altre strade? Una “lettura spirituale” del senso della vita, per esempio, che ha poi dato ulteriori frutti in altre direzioni? Come nel caso delle raccolte pubblicate per Leonardo-Oscar Mondadori, “La preghiera di Ognuno”, del 1998, e “La ricerca dell’impossibile” dell’anno successivo?

La mia formazione è “laica”, ma ho sempre avuto un interesse forte per le religioni, per il sentimento religioso della vita. Scrivere Annunciazione mi ha permesso di approfondirlo, avviando un’indagine interiore, storica e teologica, che si è tradotta anche nelle raccolte che hai ricordato. Non si tratta però di “altre strade”, di una “via dello spirito” contrapposta a una “via della materia”. Le religioni non sono evasioni, ma sprofondamenti, e insegnano, anche ai non credenti o ai dubbiosi come me, a non indietreggiare, ad abbracciare una realtà piena di misteri e di contraddizioni.

Con “Le ali ai piedi” c’è stato un ritorno alla formula narrativa tradizionale, a un linguaggio più immediato e direttamente fruibile. Come mai questa inversione di tendenza?

Quando ho cominciato a scrivere Le ali ai piedi avevo in mente una sfida scomoda: volevo esplorare in modo vitale i temi della malattia e della morte, quelli che la nostra società rimuove, pretende di occultare. Ma volevo farlo con realismo e ho messo due donne a confronto in un viaggio attraverso l’Italia, scoprendo, nelle loro reazioni, quello che poteva coinvolgere me, e possibilmente i lettori. Non parlerei però di inversione di tendenza. La distinzione tra i generi, in particolare tra saggio e romanzo, secondo me oggi è aleatoria. Quello che conta non è il genere, ma la forza del linguaggio. Non a caso i libri più innovativi e più potenti degli ultimi cinquant’anni sono opere di “sconfinamento”, quelle di Borges per esempio, o di Marguerite Yourcenar, o di Giuseppe Pontiggia. Certo, il romanzo, genere dai contorni sempre più sfocati, rimane una tentazione.
Per tenerlo in vita, molti scrittori hanno sentito il bisogno di rinchiuderlo in confini netti, riconoscibili: thriller, spionaggio, erotico… Ma gli artisti amano il percorso extraterritoriale, il “disordine sacro” di Rimbaud. E, anche in un mondo disorientato come il nostro, continuano a inseguire una libertà di espressione e di movimento che valga per gli uomini, e per i romanzi che li raccontano.

Protagoniste delle tue storie sono le donne. E’ un modo per mettere in luce la centralità del mondo femminile in una società che ne ha invece oscurato i meriti e il valore?

Le donne hanno fatto passi in avanti decisivi, ma il processo verso la pari dignità è ancora lontano dall’essere compiuto.
Come soggetti sociali “nuovi”, hanno però un’occasione unica e importante: opporre allo schematismo maschile la propria flessibilità, la capacità di far coesistere “anime” diverse, contrastando, o almeno rendendo più complessi, sentimenti che gli uomini hanno trasformato in idoli, come l’aggressività, la competitività fine a se stessa. Ma le ragioni che mi spingono a scegliere protagoniste femminili sono anche altre. Intanto, mi è più facile riconoscermi nei tratti dei personaggi, e poi, la psicologia femminile è più mobile, più imprevedibile, più bizzarra…

Hai terminato la stesura di un nuovo libro. Ora stai lavorando a qualcosa di nuovo?

Sì, ho concluso un libro su Teresa di Lisieux, né una biografia, né un saggio, ma un percorso libero, di taglio narrativo, dentro questa singolare figura di santa, la terza donna nella storia a essere dichiarata Dottore della Chiesa, dopo Caterina da Siena e Teresa d’Avila. Ora sto lavorando invece a un nuovo romanzo…

Bene, in attesa del nuovo romanzo, ai lettori di “Teatro Naturale” anticipiamo nel frattempo il risvolto di copertina del prossimo libro della Bosio, “Teresina”, in uscita per il mese di aprile per le edizioni Mondadori.

Nel 1997 Teresa di Lisieux è stata proclamata Dottore della Chiesa, accanto a filosofi come Agostino e Tommaso d’Aquino, a traduttori della Bibbia come Gerolamo, a mistiche come Teresa d’Avila. Ma quale fu la scienza di Teresa? Carmelitana a Lisieux, morì di tisi a ventiquattro anni, lasciando solo note autobiografiche scritte per obbedire alla priora. Nel 1925 venne dichiarata santa e la cosa apparve naturale. Con il titolo di Storia di un’anima i suoi ricordi, rielaborati dalla sorella maggiore, erano andati a ruba in tutto il mondo. Il lavoro filologico sui manoscritti, nella seconda metà del Novecento, ha moltiplicato la curiosità e le edizioni. Nell’incredibile storia di Teresa Martin, Laura Bosio compie un originale e personalissimo itinerario narrativo. Attraverso lo stile e le modalità di ricerca affinate in Annunciazione, interroga fotografie, luoghi, case, oggetti, persone, testi, parole, in una trama di associazioni e cortocircuiti che alla fine formano un mosaico unitario e inedito. In questo viaggio la “piccola santa” di Lisieux, che la priora trovava “un poco comica, un poco mistica”, si libera definitivamente di languori e angustie ottocentesche, cui è stata a torto associata, per rivelare, in immagini colorate e potenti, tutta la forza, la modernità, l’audacia di una vita e di un pensiero d’amore tra i più sconcertanti e immensi che abbiamo ricevuto.