Cultura

La morte? Non una tragedia, ma l’altra faccia della vita

La morte è cosa nostra e non della natura. Un breve saggio del filosofo Sossio Giametta con una riflessione, da Marx a Freud a Nietzsche, scaturita a partire dal romanzo Se tu fossi qui di Maria Pia Ammirati

29 gennaio 2011 | Sossio Giametta

Sossio Giametta

Considerato che in natura tutti i fenomeni sono concatenati da un’intima coerenza, è indubbio che la creazione degli esseri viventi, nelle loro innumerevoli forme, corrisponde a una necessità naturale, necessità che è nello stesso tempo libertà creativa. E in effetti la natura non è altro che una creatività senza limiti.

Sarebbe comunque bello vedere le cose più da vicino, capire per esempio come e perché nella natura sono apparsi gli animali che vivono nel mare – diciamo la balena, lo squalo, la razza – e quelli che vivono sulla terra e nel cielo, capire cioè le ragioni di questa o quella forma, del leone come del delfino o dell’aquila. O dell’aragosta, ammirata nella sua originale e armoniosa organicità da Goethe in Italia. Ma questo, ahimè, non è dato, almeno non nella nostra epoca, e non sappiamo se potrà essere dato in un’epoca futura. Già Schopenhauer, che ha spiegato tante cose che altri non hanno spiegato, lamentava che non si potessero rinvenire, nell’esssenza del mondo, le radici dell’individualizzazione.

Limitiamoci quindi a rilevare quello che vediamo coi nostri occhi. Noi vediamo delle specie, degli uomini, dei pesci, degli uccelli, i cui membri presentano due caratteristiche essenziali: da un lato sono intimamente collegati, come le foglie di un albero, e dall’altro sono spinti ciascuno verso la massima individualizzazione possibile, come le stesse foglie di un albero. Questa individualizzazione fa parte certamente della potenza creativa della natura, la quale si manifesta appunto nella generazione del maggior numero possibile di individui il più possibile diversi l’uno dall’altro, sebbene tra loro intimamente collegati (questa spinta si ripercuote anche nella storia delle civiltà).

Guido Cagnacci, La morte di Cleopatra

Nei membri di ciascuna specie, il contemperamento di queste due tendenze contrastanti è diverso da individuo a individuo. Può essere più o meno centripeto e più o meno centrifugo. In ogni individuo è il grado della tendenza centripeta che determina il suo grado di moralità. La madre che per curare il bambino rinuncia al divertimento è centripeta, dunque morale, esattamente come la bufala che, a rischio della vita, difende il suo piccolo dai leoni. La madre che per divertirsi non cura il bambino, che “per la sua piccolina non compra mai balocchi”, ma soltanto profumi per sé, come nella vecchia canzone Balocchi e profumi, è centrifuga, immorale. Ma ha questa moralità, che ha il suo centro nella specie come tramite e depositaria della massima vitalità della natura, un valore al di là della specie?

Sì, può averlo anche per le altre specie, come accade per esempio quando noi ci facciamo scrupolo di rispettare, proteggere e curare gli animali; ma al di là delle specie, che anch’esse sono tra loro collegate e diverse, e diverse al punto che possono essere contrastanti (per esempio gli uomini e le cavallette), essa, la moralità, non ha più senso. Nella natura, al di là del mondo umano e più generalmente dei viventi, la moralità non ha più senso. Il suo unico senso è il potenziamento della vita della specie tramite l’individuo, potenziamento che può coincidere col potenziamento dell’individuo, ma talvolta è invece un sacrificio di quest’ultimo, a seconda delle circostanze. Il suicidio di Catone, per esempio, accresce come atto e come esempio il patrimonio genetico (morale) dell’umanità.

Ma benché l’individualizzazione sia evidentemente, come abbiamo detto, tra i fini perseguiti dalla natura, il fine privilegiato è la propagazione della vita. “La storia schiaccia l’individuo”, ha detto Marx. Così si può dire: la specie schiaccia l’individuo. In questo senso dunque il fine della natura è radicalmente divergente dal fine dell’individuo: prosperare e durare.

L’individuo, nella propagazione della vita, conta solo come un anello della catena che trasmette il moto vitale. In questo senso la natura lo favorisce finché e affinché possa generare e generi nuova vita, favorisce il maschio incitandolo a generare col maggior numero di donne possibile, favorisce la femmina incitandola alla stabilità perché la prole possa prosperare in sicurezza; in particolare quando è gravida, la donna beneficia di veri “favori”, cioè di una multiforme immunità e protezione della natura. Ma quando sia il maschio che la femmina escono dal ciclo della riproduzione, la natura li abbandona a se stessi. Anzi li commette alla morte, tramite vecchiaia e malattia: per fare spazio a nuovi generatori.

La morte non è dunque nella natura una tragedia, neanche un dramma, è semplicemente l’altra faccia della vita, la condizione indispensabile di essa, che senza la morte quindi non è concepibile. L’uomo può capirlo. Il santo, il poeta, il filosofo, insomma il genio, possono accompagnare l’universo nel suo volo, partecipare alla grande vita, al divenire della natura, e accettare con cuore impavido il suo ciclo di vita-morte-vita.

Finchè il genio dimora in noi, siamo impavidi, anzi come pazzi, e non facciamo caso alla vita, alla salute e all’onore; voliamo attraverso il giorno più liberi di un’aquila, e siamo nel buio più sicuri della civetta.

Ma che succede se il genio, quintessenza di slancio altruistico, ci abbandona? Se l’individuo in carne ed ossa che noi siamo si ritira dallo sperpero, dalla dedizione a qualcosa che è in sé grande, ma è del tutto, “crudelmente” indifferente alla nostra sorte come individui? che ci afferma prima solo per sfruttarci e negarci dopo?

Ma a un tratto esso ci abbandona, e altrettanto improvvisamente sopravviene in noi una profonda sensazione di spavento: non comprendiamo più noi stessi, soffriamo per tutte le cose vissute, per tutte le cose non vissute, siamo come tra rocce nude, di fronte a una tempesta, e nello stesso tempo come misere anime di fanciulli che si spauriscono per un fruscio e un’ombra (Nietzsche, Aurora 538).

La vita dell’uomo fiorisce finché l’uomo alberga in sé la forza e i fini della specie, quando è un grembo per un figlio non suo. Si sente allora immortale, perché ripete in sé l’immortalità della vita, che dunque è una qualità della vita e non una durata. Tutto ciò termina quando termina l’interesse della natura per l’individuo-non-più riproduttore. In fondo dunque la vita dell’uomo, dei viventi, diverge dalla vita della natura, sebbene sia da questa espressa e ad essa vincolata per l’inizio, lo sviluppo e la fine.

È così che sorge la civiltà, come membrana, intercapedine difensiva tra gli uomini e la natura. E tuttavia questa membrana o intercapedine rimane fondamentalmente soggetta alla natura e il suo funzionamento, per quanto prezioso -vivere in una società civile è ben diverso dal vivere nella giungla selvaggia - rimane instabile, contraddittorio ed essenzialmente problematico, come Freud ha ben spiegato (Il disagio della civiltà). Il punto culminante del contrasto individuo-natura è la morte.

Per la natura essa è un battito di ciglia che non interrompe la visione, per usare un’espressione di Schopenhauer; per l’individuo è la fine di tutto, è la tragedia massima, che fu vissuta ed espressa nella sua purezza dai greci antichi, cioè la mortalità dell’uomo come problema dei problemi. Dunque la morte è cosa nostra e non della natura. Ma come cosa nostra è tutto un mondo, un mondo puramente umano, che ci coinvolge in tutto e per tutto. Della tragedia della morte, quando si tratta della morte di una persona cara, per noi necessaria e indispensabile, esiste oggi una fenomenologia acuta, precisa, rigorosa e completa in un romanzo, nel romanzo esemplare Se tu fossi qui di Maria Pia Ammirati, edito da Cairo.

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