Mondo Enoico 08/04/2006

FLORIANO ZAMBON: IL VINO E’ UNA GRANDE RISORSA DELL’ECONOMIA, OCCORRE AVERE IL CORAGGIO DI PUNTARE SULLE PECULIARITA’ DEL TERRITORIO

Il vino dal giusto rapporto qualità-prezzo non teme alcuna congiuntura. Non bisogna tuttavia pensare al vino come alimento, ma a qualcosa ch’è insieme territorio e cultura. Dal punto di vista del marketing le aziende sono già avanti, basta pensare soltanto a come è cambiata la cura che riservano all’immagine


Zambon, lei è presidente dell'associazione delle Città del Vino, nonché di Altamarca. Inoltre, altro aspetto non trascurabile, lei è pure sindaco di una città simbolo per la bevanda di Bacco: Conegliano Veneto. Ebbene, dall'alto delle sue cariche, che cosa intravede in prospettiva futura per il comparto del vino?
Per quanto riguarda il comparto del vino italiano ci sono segnali contradditori: il 2002 è stato un anno tristissimo per il vino, le statistiche dimostrano un calo commerciale del 10%, bisogna dire, però, che proprio in quel periodo, mentre delle aree perdevano più del 10%, altre aree hanno registrato un segno positivo, e questo, ad esempio, è il caso del Prosecco.
Il 2002 ha dato una lezione: il prodotto di qualità con un giusto rapporto qualità/prezzo non teme questa situazione congiunturale, la teme, invece, quel prodotto che è troppo spostato verso la qualità o troppo spostato verso il prezzo.
Bisogna puntare ad un’immagine del vino italiano come ad un elemento che potremmo definire “poesia della tavola” e non si può più pensare al vino come alimento. Bisogna pensare ad un prodotto inebriante, che fa pensare, sognare ed immaginare a colui che lo consuma e lo degusta al territorio che lo ha espresso, alla storia, alla cultura del territorio ed è per questo che dobbiamo combattere quei vini che non hanno Denominazione e “combattere” affinché il nome del territorio sia legato al vino.
Ad esempio: quando si parla di Brunello è automatico parlare di Montalcino, come è automatico parlare di Brunello quando si nomina Montalcino.
In prospettiva futura ci si augura che il vino italiano si incanali su due binari.
Il primo: il vino che concorre con i vini internazionali e standardizzati - e ci sono produttori in grado di farlo.
Il secondo binario: tutti i prodotti che non si limitano al nome del vino ma che sono legati al territorio; vini che portano il nome di vitigni autoctoni della viticoltura eroica che si oppongono decisamente ai prodotti Ogm, in quanto i due non possono coesistere, dobbiamo salvaguardare, quindi, gli autoctoni perché sono molto limitati e si perdono nel grande mercato nazionale, per questo il territorio che li produce deve salvaguardarli. Bisogna salvaguardare quello che abbiamo e non quello che potremmo avere.
Noi dobbiamo rassegnarci al fatto che noi non raggiungeremo mai i quantitativi di produzione di Sud Africa, America Latina e Australia.



Ci sono molti giovani che hanno creduto in questo comparto, al punto da laurearsi in agraria e specializzarsi in enologia. Ci sono concrete possibilità di lavoro o dopo il grande successo degli anni Novanta calerà l'attenzione e ci si dimenticherà di queste importanti risorse umane?
Il Metanolo, venti anni fa, ha svecchiato il settore. Attraverso questo triste evento ci si è scrollati di dosso quello che c’era di retaggio del passato, possiamo dire che ci sia stato un giro di boa, e penso che dopo vent’anni sia giunto il momento di ripensare…sono convinto che il settore primario abbinato al terziario sia la prospettiva futura; non è casuale che il Prodotto Interno Lordo dell’Inghilterra sia formato per l’80% dai servizi e per il 20% dalla produzione e quello della Germania 70% dai servizi e 30%dalla produzione, mentre in Veneto il 48% è dato dai servizi e il 52% dalla produzione: quindi sarà difficile che l’Inghilterra e la Germania tornino indietro, sarà più facile che noi ci avviciniamo a loro.
Per colmare questa differenza bisogna incentivare non quei servizi che riguardano le professioni dell’avvocato e dei commercialisti ma servizi che presuppongono una trasformazione (ristorazione, servizi sociali e una nuova agricoltura) quindi il settore primario e terziario che possono costituire anche l’enoturismo il quale può essere una grossa opportunità, infatti è stimato che quattro milioni di enoturisti di oggi, nel giro di sei anni sono destinati a raddoppiare e di conseguenza il fatturato e questo significa un aumento dei posti di lavoro. Quindi un neolaureato in un settore specifico collegato potrà essere colui che può presentare un prodotto di livello all’estero; dobbiamo stimolare la curiosità dei paesi esteri sui nostri prodotti.
Io sono stato nel 2000 in Giappone a promuovere le strade del vino e ho trovato un’enorme attenzione, è per questo che è necessario lavorare per incentivare i contatti con i paesi esteri.

Cos' è Altamarca e cosa la differenzia dal Consorzio del Prosecco?
Il consorzio del Prosecco riunisce i produttori, mentre Altamarca è un’associazione che unisce le istituzioni con i produttori. Se queste due realtà si mettono insieme possono produrre tutto quello che è collegato a loro. Altamarca è la giusta simbiosi tra territorio e vino.

Il marketing è un nodo cruciale per il successo. In Italia siamo pronti per impostare le attività aziendali, oltre a quelle consortili, su questo elemento di forza?
Sicuramente sì, parlando solo del Prosecco sono 50 milioni di bottiglie piazzate sul mercato internazionale.
Le aziende da sole, dal punto di vista del marketing sono già avanti, basta pensare soltanto a come è cambiata la cura che riservano all’immagine.

E con Altamarca cosa pensate di fare per gli associati?
Ci sono diverse cose in programma mi limito a dirne una sola: se Altamarca riuscisse ad essere una realtà di riferimento, potrebbe consentire agli associati di usufruire del proprio marchio; lo stemma di Altamarca potrebbe diventare, così, elemento di garanzia, quindi lo stemma di Altamarca diventerebbe uno stemma di territorio. Ci sono diverse iniziative da mettere in rete e Altamarca può disporre di questa possibilità per affiancare i suoi associati.

Non solo marketing. C'è anche l'altra forza propulsiva: la comunicazione. Le Città del vino ci credono molto, come si nota dalle molte iniziative. E i Comuni? Lei peraltro è sindaco, quindi a stretto contatto con gli altri sindaci d'Italia.
Se l’associazione “Città del vino” ha circa 600 iscritti, a differenza delle Città dell’olio, del pane, della ceramica… è il segno che nel vino c’è una propensione maggiore alla rete e penso che ci sia molto da fare ma vent’anni di esistenza non sono pochi…


L'Anci, questa associazione che unisce i Comuni del nostro Paese, quanto sta credendo nel vino?
L’Anci ha costituito un “braccio” operativo e una “mente” pensante attaccata al braccio che si chiama “Res Tipica” la quale ha la funzione di collegare tutte le associazioni di entità, nel vino è facile trovare i comuni sensibili però non tutti sono sensibili, anche perché non tutti i comuni sono a vocazione viticola e bisogna dire che la funzione dei comuni non è quella di incentivare la produzione economica, infatti farei una proposta provocatoria al nuovo governo: perché, invece di far applicare l’Ici, non consente ai comuni di beneficiare dell’incremento Irpef sul proprio territorio? Sarebbe un modo per stimolare l’ingegno degli amministratori non a far costruire e quindi creare centri urbanistici ma quello di trovare modi di produrre reddito che siano tali da consentire un incremento del benessere del proprio territorio, se così fosse il comune non avrebbe solo la funzione istituzionale di governare l’urbanistico, i lavori pubblici e i servizi demografici ma diventerebbe anche un soggetto economico.

Cosa vorrebbe per il futuro?
Sono convinto che il vino sia una grande risorsa dell’economia. Con il vino dobbiamo pensare ad un futuro positivo perché stando attenti ai due binari che facevo riferimento prima, c’è la possibilità di avere grandi soddisfazioni. Vorrei che si riuscisse a contenere il concetto di quel prodotto che è senza nome.

Rispetto ad altri Paesi produttori, usciremo a testa alta da questa crisi che sta investendo l'economia mondiale?
Sì, la dimostrazione è che in certi paesi dove c’era l’abitudine a consumare determinate bevande si è passati al vino, penso al superamento del vino nei confronti della birra in Inghilterra e penso che i francesi non sono più i principali esportatori verso gli Stati Uniti.
Lo Champagne non è più interessante perché sulla questione qualità/prezzo c’è uno sbilanciamento enorme.
L’Italia deve avere il coraggio di non tenere conto di quelle sirene della grande quantità, deve avere il coraggio di puntare molto sugli angoli del tipico anche per la grande distribuzione, deve fare in modo che ci siano i due binari effettivamente percorribili con, da una parte, la grande distribuzione e, dall’altra, le piccole partite che sono il valore aggiunto della nostra nazione.

di Enrico Rana