L'arca olearia

Olio di oliva ozonizzato? Massima prudenza, non facciamoci illusioni

Il professor Giovanni Lercker, dell’Università di Bologna, fa chiarezza dopo le rivelazioni scaturite dallo studio dell’Università del Salento. Una applicazione cosmetica sulla pelle, con una frequenza quotidiana, potrebbe essere pericolosa, quantomeno per le possibilità di inalazione di ozono associate all’impiego

23 gennaio 2010 | Giovanni Lercker



Con l’aumento esponenziale della conoscenza è difficile seguire gli sviluppi che avvengono in molti settori scientifici, ma talvolta anche quelli più vicini. Mi scuso di non conoscere l’ozonizzazione di materie prime a destinazione cosmetica, che probabilmente ha sviluppato prodotti di un certo interesse applicativo. Tuttavia, ho letto con un po’ di sorpresa su Teatro Naturale che l’Università del Salento si sia occupata di un argomento come quello di un prodotto cosmetico, seppure a base di oli da olive (link esterno).

Il mio timore, spero infondato, è che qualche lettore voglia imitare questo tipo di produzione allo scopo di produrre oli destinati al settore alimentare. Gli ozonuri (detti anche ozonidi), infatti sono strutture molecolari relativamente instabili e i prodotti originati dalla loro decomposizione-trasformazione non sono entusiasmanti per gli aspetti alimentari.

L’argomento mi ha fatto ricordare che l’ozono, come gas, è stato considerato – ormai diversi anni fa – una sostanza problematica per chi la respira, tanto da essere bandita dalle palestre, dove era prodotta da quelle lampade sfrigolanti che emettono luce violetta.
Negli Stati Uniti la quantità di ozono negli ambienti non può superare i 60-70 ppb, rispetto al più elevato limite precedente, per legge (Obama 2010 con EPA, agenzia per l’ambiente).

Mi sono anche ricordato che gli ozonidi degli acidi grassi, prodotti su sistemi modello monoinsaturi per scopi analitico-strutturali, venivano ottenuti facendo gorgogliare ozono in una soluzione del composto di interesse con solvente inerte, piuttosto che nel sistema puro (neat), per poi generare (in ambiente riducente) un aldeide e un chetone o due aldeidi per ogni ozonide al contatto di metalli e acqua (Zn ad esempio), oppure (in ambiente ossidante) un acido e un aldeide.

Nel settore cosmetico l’impiego di sostanze strane è concesso sulla base di indagini accurate sulle eventuali interazioni con le strutture con cui verranno a contatto. Per esperienza, qualsiasi ossidante come l’ossigeno allo stato fondamentale (tripletto), l’ossigeno allo stato attivato (singoletto) l’acqua ossigenata e tanti altri reagenti chimici, sono capaci di ossidare doppi legami carbonio-carbonio per generare sostanze ossigenate più o meno instabili e reattive.

Nel caso dell’ozono, ossidante molto potente comparabile con l’ossigeno singoletto, ci si attenderebbe che si verifichi a contatto con un olio vergine (vergine o extravergine) di oliva una serie di reazioni: ossidazione dei doppi legami ed eventuali demolizione dell’ozonuro formato – nel tempo o rapidamente – e/o con le sostanze antiossidanti (soprattutto riducenti) presenti in questi tipi di oli. Infatti, se l’ossigeno dell’aria che è inevitabilmente soluta nell’olio, in seguito del contatto con l’aria, è capace di ossidare durante la conservazione, a maggior ragione dovrebbe esserlo l’ozono.

Le applicazioni possono essere tante (anche in odontoiatria) ma che, tenendo conto delle problematiche di comunicazione ai consumatori, scrivere che può avere una applicazione cosmetica sulla pelle (esempio creme o oli per il corpo) o con una grande frequenza (quotidiana) potrebbe essere pericoloso quantomeno per le possibilità di inalazione associate all’impiego, in relazione all’odore di ozono emanati da prodotti di tale tipo.

Un approfondimento, a mio parere, sarebbe necessario sulla situazione dei prodotti originati dall’ozonizzazione degli oli (condotta prima, dopo e trascorsi un paio di mesi, su campioni prima e dopo il trattamento) mediante la determinazione delle sostanze ossidate (secondo Rovellini e Cortesi, metodo NGD C 88-2007) con l’impiego della HPLC, presumendo che i perossidi siano stati ben dosati, ma anche la valutazione dei prodotti secondari dell’ossidazione mediante un indice di aldeidi (TBARs ad esempio, o indice di anisidina), oltre ad un’analisi HPLC del profilo dei polifenoli, per individuare ossidati e non.

Per quanto riguarda le prove su cellule e quelle sull’epidermide, desidererei approfondire le concentrazioni degli ozonuri utilizzati allo scopo, che saranno sicuramente noti agli Autori della sperimentazione. Aldeidi, soprattutto quelle
alfa, beta-insature generalmente con caratteristiche irritanti, che dipendono ovviamente anche dalla concentrazione delle molecole corrispondenti somministrate.

Una misura dell'ozono liberato come gas e non solo di quello legato e disciolto sarebbe certamente auspicabile, in relazione al rilascio allo stato gassoso di ozono potenzialmente aspirabile dal consumatore che impiega il cosmetico o il parafarmaceutico ozonizzato.



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