L'arca olearia
Il ritorno della lebbra dell'olivo negli oliveti italiani
Un fungo quasi dimenticato ma molto pericoloso per l'olivo. Mentre un tempo la sua presenza sembrava circoscritta ad alcune regioni meridionali, oggi sembra che sia diffusa anche in altre zone tra cui, negli ultimi anni, alcune aree della Toscana
02 dicembre 2016 | Massimo Ricciolini
La Lebbra dell’olivo il cui agente causale è l’ascomicete Colletotrichum gloesporioides (Penzig) Penzig et Saccardo era assente o quasi in molti areali olivicoli italiani.
Negli ultimi anni è stato riscontrato un ritorno di questa patologia, segnalata per la prima volta nel 1950 da Ciccarone, dopo un periodo di stasi o di regressione dell’intensità delle infezioni si è verificata una serie di incrementi di virulenza e/o di diffusione del fungo a livello delle varie regioni della penisola. Infatti, mentre un tempo la sua presenza sembrava circoscritta ad alcune regioni meridionali (Calabria, Puglia), oggi sembra che sia diffusa anche in altre zone tra cui, negli ultimi anni, alcune aree della Toscana. Biologia La forma sessuata di Colletotrichum gloesporioides è Glomerella cingulata, anche se tale forma perfetta non sembra sia stata mai osservata in natura.
Colletotrichum gloesporioides è una specie polifaga, estremamente diffusa con numerosi ceppi e molto eterogenea dal punto di vista genetico, con una certa specializzazione da parte dei vari isolati. Nel caso dell’olivo è stato osservato che esiste una caratterizzazione genetica comune degli isolati del fungo reperiti a livello dei tessuti infetti. Il micete si conserva come periteci, micelio o conidi nei frutti infetti e marciti, nei semi, nei residui vegetali o in corrispondenza dei piccoli cancri che determina. Sui tessuti infetti il fungo riesce a penetrare grazie ai conidi che germinando emettono un tubo germinativo con appressorio che permette il passaggio attraverso aperture naturali (stomi, lenticelle), microlesioni e/o ferite di varia natura. Dopo un periodo di incubazione si ha la formazione degli organi riproduttivi (acervuli) da cui si sviluppano i conidi che provvedono alla disseminazione e diffusione del patogeno. La germinazione dei conidi (in condizioni di laboratorio) può avvenire con un ampio range di temperatura: 5-35°C. Lo sviluppo del micelio trova le condizioni ottimali tra i 20 e i 25°C. Il periodo di incubazione è variabile da 5 a 10 giorni con temperature decrescenti da 25°C a 15°C. Tali valori inducono a validare le ipotesi di diffusione, a livello dei frutti, del fungo che richiederebbe stagioni caratterizzate da elevata umidità e mitezza delle temperature; viceversa inverni freddi con caldi estivi possono costituire delle limitazioni per ulteriori incrementi del micete. Sintomatologia e danni Il fungo determina macchie necrotiche e/o depresse (marciumi) sui frutti, macchie e avvizzimenti a livello delle foglie, disseccamenti di rametti, di piccole branche e talvolta anche di infiorescenze. Sui frutti, tendenzialmente durante l’invaiatura delle drupe, si hanno marciumi costituiti da macchie più o meno depresse, brunastre, spesso sviluppatesi in corrispondenza del punto di inserzione del peduncolo, e sulle quali si sviluppano e sono evidenti gli acervuli del fungo. Sulle foglie si evidenziano delle piccole macchie clorotiche con contorno non ben definito che tendono ad allargarsi assumendo una colorazione rosso-brunastra (oppure di bronzatura) fino a raggiungere i lembi della lamina fogliare. Sui rametti e su piccole branche (5-6 cm di diametro) il patogeno può formare macchie aride, biancastre, tondeggianti o irregolari. L’attacco del micete su tali organi ne può determinare il disseccamento. È da considerare che spesso sono presenti solo i sintomi sulle drupe, mentre gli eventuali danni riscontrabili a livello di foglie, rametti e branche, sono minimi. In casi di elevate infezioni, spesso in concomitanza con condizioni ambientali favorevoli oppure di debilitazione delle piante per altre cause, si possono originare disseccamenti, anche estesi, di rametti e di branche oltre che caduta delle foglie infette. I sintomi osservabili a livello fogliare sembra siano correlati con la produzione di sostanze fitotossiche da parte del micete. I danni maggiori, ovviamente, si riscontrano a livello delle drupe: infatti i frutti attaccati cadono prematuramente con conseguenti danni diretti per la produzione. Le olive infette producono un olio molto scadente, caratterizzato da elevata acidità, torbidità, colorazione rossastra ecc.
Oltre agli interventi di tipo agronomico aventi l’obiettivo di limitare le condizioni predisponenti per le infezioni del fungo (arieggiamento delle chiome, potature di riequilibrio, in modo particolare su piante già attaccate l’anno precedente, concimazioni equilibrate, disinfezione degli attrezzi usati per le potature nel passaggio da una pianta all’altra, eliminazione dei giovani rametti infetti nel corso delle operazioni di potatura ecc.), possono essere effettuati trattamenti con prodotti rameici in corrispondenza delle prime piogge autunnali. Tali interventi sono giustificati, ovviamente, in oliveti già attaccati in passato e quindi con elevati potenziali di inoculo e quando le condizioni climatiche sono favorevoli allo sviluppo del fungo (temperature miti e piogge frequenti). Gli interventi andrebbero effettuati a inizio invaiatura ed eventualmente a fine ottobre. Anche nella difesa da questo micete oltre ai Sali di rame possono essere utilizzate gli stessi principi attivi utilizzati per l’occhio di pavone. È da considerare che di solito i trattamenti con prodotti rameici effettuati con una certa regolarità nei confronti di Spilocaea oleaginea e, anche in questo caso, i trattamenti rameici realizzati a fine di prevenzione delle infestazioni di Mosca delle olive possono risultare sufficienti per contenere anche lo sviluppo di questa fitopatia. In agricoltura biologica i prodotti ammessi sono sali rameici e miscele costituite da zolfo e sali rameici.
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Giovanni Vannacci
05 dicembre 2016 ore 19:01Ritengo opportuno aggiungere qualche commento al fine di fornire una corretta informazione su una situazione di per se già complessa.
La Lebbra delle Olive è causata da diverse specie di Colletotrichum. Quella più frequentemente associata con la malattia in Italia, o almeno nel meridione d'Italia dove colpisce più frequentemente, è Colletotrichum godetiae mentre in altri Paesi sono state segnalate anche altre specie quali, ad esempio, C. simmondsii, C. fioriniae, C. acutatum sensu stricto Tutte queste fanno parte di quella che, fino a non molto tempo fa, era indicata come C. acutatum sensu lato, che si è rivelato essere un insieme di specie filogeneticamente diverse e causa principale della Lebbra (e di antracnosi di molte altre piante). Per quanto riguarda C. gloeosporioides, anch’esso oggi considerato un insieme di specie diverse, sembra giocare un ruolo di minore importanza. E’, oramai, evidente che in diverse aree geografiche, diverse sono anche le specie dominanti, che possono differire per patogenicità e capacità di adattamento alle condizioni ambientali. Per meglio comprendere l’epidemiologia della malattia e definire interventi di difesa, sarebbe opportuno identificare con esattezza la composizione della popolazione in grado di attaccare l’Olivo.
Per quanto riguarda la Toscana, nel 2014, anno in cui comparve una grave epidemia, suggerimmo alla Regione di intraprendere uno studio sistematico sulle cause della Lebbra, visto che in Regione esistono le competenze ed i laboratori accreditati in grado di affrontare il problema.
Giovanni Vannacci
Prof. Ordinario di Patologia Vegetale
Università di Pisa