L'arca olearia
L'olio extra vergine di oliva italiano non può sopravvivere con battaglie di retroguardia
Pronti alle barricate contro l'analisi del DNA. E' questo il messaggio che Federolio ha recapitato al Ministro Martina il 9 febbraio scorso. L'innovazione deve valere solo per olivicoltori e frantoiani, quando si tratta di superintensivo e abbattimento dei costi. Le battaglie antistoriche di un'Italia olivicolo-olearia
11 marzo 2016 | Alberto Grimelli
Non so se il Presidente di Federolio, Giuseppe Masturzo, ha sentito arrivare in anticipo gli echi di un'inchiesta, quella sul falso Igp Toscano, che ha usato per la seconda volta in poche settimane la tecnica del DNA.
Non so se neanche il Presidente Masturzo fosse a conoscenza che, in questa seconda inchiesta, oltre al Corpo Forestale dello Stato, fosse coinvolta anche la Repressione Frodi. Entrambi gli organi di vigilanza del Ministero, il primo corpo di polizia, il secondo come semplice organismo di controllo, hanno quindi utilizzato tale innovativo controllo analitico.
So per certo, invece, che il 9 febbraio scorso il Presidente di Federolio ha preso carta e penna e scritto una lettera al Ministro Martina, per chiedere chiarimenti sui metodi analitici non ufficiali e in particolare sull'”utilizzazione del metodo del DNA delle cultivar per accertare l'origine dell'olio extravergine di oliva”.
Federolio, immediatamente, si pone sulla difensiva, indicando che quattro cultivar estere sono coltivate anche in Italia. Più precisamente Arbequina, Arbosana, Koroneiki e “la marocchina Picholin”. Sulle prime tre non ho dubbi, sono a dimora qualche centinaio di ettari con queste varietà. Sull'ultima indicata ho qualche perplessità, visto che non esiste una sola Picholine e non necessariamente è la Picholine marocchina la più diffusa. Così ho qualche dubbio che la Picholine marocchina si adatti bene al modello superintensivo, citato come motivo della diffusione di queste cultivar "non autoctone" in Italia.
Al di là delle disquisizioni tecniche, Federolio utilizza il metodo socratico per ribadire il concetto che l'olio ottenuto da queste varietà, quando coltivate in Italia, è extra vergine nazionale. Citando il paragrafo 5 dell'articolo 4 del regolamento comunitario 29/2012, Federolio fa presente al Ministro che non è possibile altra interpretazione della norma. L'olio di Arbequina è italiano, quando le piante sono coltivate sul suolo nazionale.
Quindi il Presidente Federolio si concentra proprio sul metodo del DNA, indicandolo come “metodo non ufficiale”. Come già in precendenti missive ai soci, riconosce che varie frodi sono state perpretate anche con oli rispettosi di tutti i parametri di legge. Poi la domanda: “Tuttavia, un metodo “sperimentale” è sempre applicabile nei controlli ufficiali, quale ne sia l'efficacia e lo stato di validazione?” Aggiungendo: “Ciò ci sembra difficilmente sostenibile.”
Il passaggio merita una riflessione. Il metodo del DNA, in poche righe, è passato da essere “non ufficiale” a “sperimentale”. Non è solo una questione semantica. Un metodo può essere ormai ben validato scientificamente, quindi non più allo stato sperimentale, pur non essendo ricompreso nei regolamenti ufficiali di analisi. E' il caso delle pirofeofitine, per esempio. E' stato giudicato un parametro non così utile ai fini della verifica di qualità e genuinità, ma certamente non lo si può definire sperimentale.
Definendo il metodo del DNA sperimentale, Giuseppe Masturzo ha poi buon gioco a fare un ulteriore passaggio, chiedendo al ministro Martina “quali condizioni ritiene che debbano essere soddisfatte affinchè un metodo non ufficiale possa essere applicato in controlli ufficiali” e poi “quale è l'organismo a cui ritiene di dover demandare il compito di verificare la sussistenza di tali condizioni.”
Di fatto Masturzo chiede a Martina di bloccare le indagini, anche quelle in corso?, basate su metodi non ufficiali, in attesa che tali analisi siano validate da un non precisato organismo, scelto dal Ministero.
Oltre ai seri dubbi di natura giuridica di una simile operazione, a cui non credo che il Ministro dell'agricoltura Martina possa prestarsi, è chiaro che si tratterebbe di una battaglia di retroguardia.
L'analisi del DNA è stata sdoganata ed è diventato uno strumento di verifica, a disposizione della polizia ma anche dei partner commerciali, per contrastare frodi e contraffazioni. Quasi la metà dei cittadini italiani, secondo un sondaggio di Euromedia per la trasmissione Ballarò, si dice poco sicuro di quanto compra e mette in tavola. La percezione di insicurezza è tanto forte che le mezze misure non bastano più. Gli italiani, al momento, si sentono sicuri, al 70%, solo quando il prodotto è italiano o dichiarato tale. E' questo il vero patrimonio da difendere e da cui ripartire.
Innovare non significa solo un nuovo modello olivicolo, un nuovo frantoio, un packaging accattivante o una promozione incisiva. Non si può puntare l'indice contro l'arretratezza della nostra olivicoltura e poi condurre battaglie contro nuovi strumenti analitici o metodi d'analisi.
Non è più tempo di battaglie di retroguardia che possono, al massimo, prolungare l'agonia ma non far ripartire il sistema olivicolo-oleario italiano.
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16 marzo 2016 ore 05:34Gent.mo De Marte,
Sono d'accordo con lei, fino a quando non riusciamo a garantire un prezzo minimo che possa coprire i costi fino alla trasformazione sarà difficile avere un aumento della produzione, l'amico Agostino ha perfettamente ragione ha sottolineare che la categoria dei frantoi "i veri produttori dell'olio" vengono tenuti poco in considerazione, personalmente ritengo il frantoiano è Patrimonio Italiano provate a immaginare una città senza un frantoio o senza un mastro oleario! in Italia vengono spese una barca di soldi per la formazione e non ci preoccupiamo di salvare e valorizzare quello che abbiamo, mi auguro che prima che sia troppo tardi........... riusciamo a dare il giusto valore alla filiera olivicola Italiana.
Raffaele Giannone
15 marzo 2016 ore 13:48Appena rientrato dal lavoro trovo questa stimolante discussione e provo a dire ancora la mia:
- per DE MARTE ricordo che se il consumo pro-capite italiano si aggira sui 12 kg/ab il fabbisogno interno italiano (60 mln di ab) è ben superiore alle 700.000 ton, ovvero ben oltre le 400.000 da lei indicate e questo non per fare il sapientino, ma per rappresentarle le quantità effettive in gioco.
- per GRIMELLI, daccordo sulla risposta a De Marte, ma quella ad Agostini trasuda politichese e frasi trite e ritrite.. Ella si bea per quella sottospecie di gassosa rossa (labruscoide) che allegramente dichiara essere la più venduta sui banchi della GdO? E ancora:
Piuttosto perchè da l'impressione di sottacere sul vero scandalo che, da italiano e olivoltore schietto, le sottopongo a difesa del VERO olio italiano (quello degno di questo nome, s'intende, chè anche da noi si fanno lampanti...) ovvero che sui bancali della tanto ammirata GdO o nei container delle nostre esportazioni, TUTTO c'è meno che olio extravergine italiano????
Con segni d'immutata stima.
Raffaele Giannone
Gaetano AGOSTINI
15 marzo 2016 ore 09:14Dott. Grimelli e chi ha detto che dobbiamo per aumentare la produzione Italiana piantare cultivar non autoctone ? Io parlo d'altro io dico cho l'olio Italiano è poco concentrato solo in alcune regioni..... ci sono Regioni del Centro Italia ad esempio ma non solo dove è possibile aumentare la produzione con nuovi uliveti anche di tipo intensivo , perché altrimenti la poesia è bella ma non si vive di sola Poesia . Nelle Marche ad esempio ci sono ha ed ha di oliveti abbandonati perché antieconomici e quella non la possiamo chiamare olivicoltura, allora ribadisco, se ci sono possibilità e dove è possibile perché essere contrari all'aumento della superfice olivetata ? anche con superintensivi ? con varietà autoctone perché ci sono già ..... far finta di non vedere non risolve quasi mai il problema. Anzi le dirò di più il nuovo PSR prevede contributi per le aziende agricole per fare i minifrantoi e nulla o quasi per i frantoiani..... bene andremo nel mondo a promuovere i produttori con 100 o magari anche 500 litri di olio ...... questo è il mondo di Coldiretti e company sono contento per loro...dovrei scrivere ma non sono bravo per altri 15 giorni ma ho il lavoro che incombe . buona giornata a tutti.
Cordiali saluti
ferdinando de marte
13 marzo 2016 ore 11:52Pregiatissimo Caroli,
ho letto il suo commento e mi trova perfettamente in linea, non dimentichiamo che un tempo esisteva il così detto prezzo d'intervento e cioè la CEE garantiva un prezzo al disotto del quale l'olio non poteva scendere. Certo altri tempi, tempi in cui la Comunità Europea funzionava veramente e lo scopo era il sociale , aiutare tutti e tutto e non solo le banche o il potere finanziario, ma questa è un'altra storia. Prezzo minimo per i costi di produzione? sono perfettamente d'accordo, perchè non diamo un aiuto al consumo solo per le aziende olivicole che producono e confezionano il loro olio garantendo così i costi di confezionamento e distribuzione ? ma a questo chi ci deve pensare la CEE oppure lo stato nazionale? penso il secondo perchè se lo facesse la CEE lo dovrebbe fare per tutti gli altri stati membro, le pare?
Alberto Grimelli
12 marzo 2016 ore 23:09Gentile Sig. De Marte,
premesso che nell'articolo si parlava di potenziali frodi, ovvero olio comunitario ed extracomunitario fatto passare per italiano, frode smascherabile anche attraverso l'analisi del DNA, vorrei smontare, una volta per tutte, il refrain, al quale sembra che industria e imbottigliatori siano molto affezionati negli ultimi tempi: l'Italia non produce abbastanza, quindi l'importazione di olio è necessaria, il mondo della produzione non si può lamentare perchè non ha innovato come e quanto fatto in altre nazioni.
I dati, presentati in questo modo, sono veri e certi. Peccato che ci sia anche un altro risvolto della medaglia. L'industria olearia e gli imbottigliatori italiani sono complici e concausa del declino produttivo degli ultimi 30 anni. Vero è che i produttori si sono cullati nei modelli F e nelle sovvenzioni. Vero anche, però, che imbottigliatori e industria hanno scoperto il “product of Italy”, ovvero che potevano comprare olio dall'estero, a prezzi più bassi, e venderlo facendolo sembrare come italiano, aumentando i profitti.
Si è generata così una spirale perversa. Le sovvenzioni tenevano in vita artificialmente la nostra olivicoltura mentre le importazioni di olio tenevano in vita, altrettanto artificialmente, la nostra industria olearia.
Oggi la nostra olivicoltura vive una crisi drammatica, con abbandono diffuso degli oliveti e crollo produttivo. L'industria olearia italiana, invece, sta letteralmente sparendo, acquisita pezzo dopo pezzo da aziende estere, quando invece, fossero solide e profittevoli, avrebbero dovuto essere le nostre imprese imbottigliatrici a comprarsi i brand stranieri.
Scagli la prima pietra chi è senza peccato.
L'olivicoltura italiana deve adattarsi ai tempi ma lo stesso deve fare l'industria e gli imbottigliatori. Non solo nuove macchine e nuove tecniche, prima di tutto una nuova mentalità e un nuovo approccio al consumatore e al mercato.
Cordiali saluti
Alberto Grimelli
Alberto Grimelli
12 marzo 2016 ore 22:44Gentile Sig. Agostini,
non ho nulla contro la ricerca o l'innovazione. Spesso su queste pagine pubblichiamo ricerche scientifiche da cui trarre importanti spunti operativi, in campo e in frantoio.
Sono però contrario al modernismo, ovvero alla moda, che si fa diffondendo in agricoltura, per cui tutto ciò che è nuovo è valido e utile e tutto ciò che è tradizionale è obsoleto e antieconomico.
Per fortuna non abbiamo più sulle nostre tavole né il vino né l'olio dei nostri nonni. Lo stesso vale per molti altri prodotti. Questo però non significa che dobbiamo buttare a mare tutto quanto venga dal passato.
Dal passato ci viene il Lambrusco, ancor oggi il vitigno e il vino più venduto sugli scaffali della GDO italiana. Dal passato viene il Glera, vitigno base del Prosecco, un vino che ha trainato il nostro export negli ultimi due anni. Anche nell'epoca di Robert Parker, anni 1990, con i pluripremiati supertuscans e punteggi stratosferici sulle guide per Merlot, Cabernet e Syrah, a trainare la carretta del nostro export vitivinicolo erano i piemontesi Barolo, Barbaresco e Nebbiolo, i toscani Chianti e Brunello (base Sangiovese). Nei top ten dei vini più venduti della GDO nel 2015 c'è solo lo Chardonnay come vino ottenuto con vitigno non autoctono mentre le performance di crescita più rilevanti sono per la Passerina marchigiana e per il Pecorino. Ottime performance anche per il Valpolicella, ottenuto solo da uve tipiche dell'area veronese. Per non parlare del boom del Sagrantino di Montefalco (Umbria). Un piccolo tour enologico per dare il giusto peso ai vitigni internazionali nella viticoltura italiana.
La realtà, nella sua giusta prospettiva, ci indica che il mercato, oltre la moda del momento, premia l'identità. L'identità, per sua stessa definizione, è mutevole, cioè cambia nel tempo, ma ha solide radici nel passato.
Venendo alla nostra olivicoltura. Un olio ottenuto da olive coltivate in Italia è italiano per legge, oltre che per logica. Un olio ottenuto da cultivar non autoctone è però un olio privo di identità. Non fa parte della nostra tradizione e della nostra cultura, né storica né gastronomica. Può diventare un fenomeno di moda, ci si può costruire un po' di story telling ma le novità, in campo alimentare come in tutti i campi, hanno vita fugace. Per sua natura una novità deve venir soppiantata presto da un'altra novità.
L'identità non passa invece mai di moda. Muta col tempo e con le generazioni: l'olio di oggi non è quello dei nostri nonni, ma ci accompagna sempre. E' diverso il pane, è diverso l'olio, ma la bruschetta è sempre la bruschetta.
Credo fermamente che l'olivicoltura italiana possa risorgere soltanto partendo dalle nostre identità, regionali e territoriali. Questo significa anche dalle nostre varietà e cultivar. Applichiamo pure tutte le più moderne tecniche e tecnologie. Innoviamo pure il prodotto, da un punto di vista organolettico e di immagine, ma non trascuriamo mai la nostra identità. E' l'unica cosa che ci rende realmente riconoscibili e distinguibili agli occhi del mondo.
Cordiali saluti
Alberto Grimelli
Raffaele Giannone
12 marzo 2016 ore 11:48Amici di TN siamo alle solite.
prima erano le navi cisterna che c'inondavano di oli misteriosi, poi la vendita dei marchi nazionali all'estero, poi le bottiggliette antirimbocco ai ristoranti, poi i trattamenti al talco e non vado avanti solo per non rovinarci la giornata!
Ma servono ancora controlli e sequestri per scoperchiare il vaso di Pandora? Quante volte elaboriamo dati, percentuali e statistiche per dirci sempre la stessa cosa: produzione italiana media annua= 400.000 tonnellate; consumo medio annuo nazionale=700.000 tonnellate, olio esportato come "italiano" medio annuo 400.000 tonnellate!!
Cosa manca?
Manca che, (sperando che almeno noi produttori (e affini) ci nutriamo dell'olio dei nostri alberi), oltre al deficit di consumo INTERNO, ovvero gli stessi italiani DEVONO consumare olio estero per oltre 300.000 tonnellate, pare che esportiamo come ITALIANO un quantitativo che ha del miracoloso!! da dove SGORGA?
INTELLIGENTI PAUCA
Soluzione: Siamo tutti più onesti e chiari con noi stessi e col mondo e non avremo che trarne benefici.
Potrà mai passare la "bestemmia" che nessuno olio è uguale all'altro? Che gli li, come i vini, come gli spumanti (o champagne), come le scarpe, come le auto etc. NON POSSONO avere prezzi standard da banco da centro commerciale e che un olio da 8 euro veramente italiano, certificato e biologico è già un prezzo sottocosto???
Raffaele Giannone, il solito olivicoltore utopico molisano.
STEFANO CAROLI
12 marzo 2016 ore 10:36Credo le osservazioni sono obbiettivamente giuste! ma se si continua a pretendere di acquistare l'olio prodotto in Italia allo stesso prezzo degli olii importati sicuramente l'olivicoltura Italiana non farà mai investimenti e la quantità sarà sempre inferiore, a mio avviso sarebbe necessario garantire al produttore di olio un prezzo minimo per i costi di produzione, in pratica il vero olio made in Italy dovrebbe essere venduto con prezzi superiori per garantire alla filiera un minimo di reddito.
Gaetano AGOSTINI
12 marzo 2016 ore 10:10Pur essendo un frantoiano e quindi non posso che essere d'accordo con nuove tecniche analitiche ma c'è sempre un MA, quando vedo Coldiretti e non solo che si sbraccia per le varie importazioni che siano olio o prosciutti ecc. ecc. non sento mai dire aumentiamo la produzione agricola, a meno che uno non sia uno stupido è chiaro a molti che noi Italia nel settore agricolo non produciamo più nulla. Allora perché non piantare nuovi ulivi super intensivi come in Spagna ? dov'è il problema ? Alcuni dicono che facciamo olio spagnolo o greco in Italia ? allora io rispondo e chiedo a Lei dott. Grimelli che stimo molto, se grazie a Dio siamo bravi ed esportiamo in tutto il Mondo le cose sono due o chiudiamo tutte le ditte confezionatrici e mandiamole all'estero perché noi non abbiamo Olio Italiano oppure non resta che produrre di più con tecniche più innovative vedi superintensivo.... perché allora Coldiretti e Company mi devono spiegare come mai quando hanno fatto mettere a dimora il Sirah, Chardonnay,Sauvignon ecc.( non so se scrivo bene chiedo scusa) che facciamo VINO FRANCESE IN ITALIA??? oppure questa regola sulle varietà vale solo per l'Olio.Credo che è meglio far lavorare e produrre i nostri terreni anche se con varietà non autoctone perché ogni terreno fa il suo olio e la sua qualità, che far mettere i pannelli fotovoltaici.....ad esempio!!! almeno se non altro dal punto di vista ambientale miglioriamo un po' no!!! Per quanto tempo ancora possiamo andare avanti a raccontare le bugie vendendo Made in Italy quando ormai tutto il Mondo ha capito che non produciamo se non solo per l'autoconsumo ? Se l'olio Italiano lo troviamo solo dai Frantoi che lavorano in maniera Artigianale...Allora capisco anche il mondo dei Confezionatori che quando si parla di DNA e non solo di loro sono preoccupati ; credo invece che dobbiamo fare squadra tutti insieme Produttori, Frantoiani, Confezionatori, Sansifici cioè tutta la Filiera olearia Italiana perché solo insieme si vince la sfida che oggi è Mondiale.... altrimenti solo solo canzonette diceva qualcuno.
ferdinando de marte
12 marzo 2016 ore 08:23Ho letto l'articolo e mi permetto di fare una semplice considerazione....... in Italia servono 750.000 tonnellate di olio l'anno di cui 400.000 per consumo interno e 350.000 per l'export. In Italia produciamo 200.000 tonnellate (suddivisi tra extra, vergine e lampante), siamo quindi deficitari di ben 550.000 ton, per cui siamo costretti ad importare dalla Spagna, dalla Tunisia, dalla Grecia, se non lo facessimo l'olio da noi prodotto non sarebbe sufficiente neanche per il nostr fabbisogno intero.
Gli scambi commerciali con questi paesi produttori , avvenivano già ai tempi dei greci e dei romani, per cui penso che additare sempre il confezionatore, il commerciante o l'industriale (costretti ad importare, per i motivi di cui sopra) come se fossero nemici del popolo. mi sembra cosa non giusta. Ben vengano, nuovi metodi ufficiali di analisi, DNA e chi più ne ha più ne metta, ma ogni tanto , rivolgiamo il dito verso il produttore, quel produttore che vuol vendere ciò che non produce, che non coltiva, che non innova sostenendo che non conviene..... quindi non produce?. Scusate se il mio commento non è populista ma bisogna avere il coraggio di guardarsi dentro e dire le cose come stanno realmente.....
ferdinando de marte
16 marzo 2016 ore 09:29Gentilissimo Caroli,
io proporrei di dare un aiuto alla molitura anche per i frantoi, visto che oggi si vededono costretti, con aggravio di spese a loro carico, di tenere la contabilità della produzione nazionale (registri di lavorazione, Sian ecc..) per conto dello stato membro , quando sarebbe stato sufficiente per il frantoio rilasciare la sola fattura di molitura per la prestazione del servizio. Penso che questo sarebbe anche un modo per dare un giusto valore alla filiera olivicola italiana.