L'arca olearia 10/10/2014

Chi ha assassinato il comparto olivicolo-oleario italiano? Ecco i nomi

Chi ha assassinato il comparto olivicolo-oleario italiano? Ecco i nomi

Ripercorriamo la storia degli ultimi cinquant'anni del mondo italiano dell'olio di oliva, attraverso i grandi marchi, per cercare di capire se dietro le politiche adottate vi sia una strategia oppure se tutto è stato lasciato al caso e all'improvvisazione dei singoli


Con la vendita al governo cinese - attraverso la controllata Bright Food - del pacchetto di maggioranza del Gruppo oleario toscano Salov, proprietario dei marchi Sagra e Filippo Berio, uno dei più noti confezionatori di oli d’oliva e di semi, un altro campione dell’import-export di oli emigra ad Est. Da Bertolli a Carapelli a Sasso, da Garofalo a Gancia, da Parmalat a Pernigotti, da Buitoni a Galbani, sono anni che assistiamo, senza battere ciglio, all’acquisto dei marchi più noti del settore agroalimentare da parte di compagnie straniere. C’è chi protesta per la perdita dei gioielli di famiglia, e chi approva esprimendo soddisfazione per l’arrivo di investitori esteri. Tutte chiacchiere da bar.
Vediamo come stanno le cose nella realtà: i cinesi non hanno comprato alcun gioiello, ma un marchio, il “made in Italy” e una location, la Toscana, cioè la più straordinaria operazione di marketing territoriale che sia mai stata inventata. E per appropriarsi di questo hanno aspettato che qualcuno vendesse un’azienda alimentare, perché, come ci informa il Corriere della Sera, c’è in Cina una nascente passione per il food italiano. L’affare lo hanno fatto gli azionisti del Gruppo Salov, che confeziona circa 130 milioni di litri di olio europeo e nordafricano di cui il 60% appartiene al segmento olio di oliva e il 40% è olio di semi.

A prima vista tutto normale, prima sono arrivati gli spagnoli, i francesi e gli inglesi, e infine i cinesi. Invece presto ci accorgeremo che con l’arrivo dei cinesi, che si mettono a confezionare olio, nulla sarà più come prima: nel settore dell’olio si è aperta una nuova era. "Il nostro obiettivo è di conservare l'identità e la tradizione italiana, mantenendo la produzione in Italia” ha commentato il portavoce del gruppo cinese. “L'accordo proietta l'azienda verso un'ulteriore fase di sviluppo, grazie alle opportunità di crescita rappresentate dal mercato cinese.” Il portavoce si riferisce ai 14.000 supermercati che Bright Food ha sparsi in tutta Cina. Per la verità il lavoro che si fa negli stabilimenti di Lucca si potrebbe fare anche a Shangai, e con un costo inferiore, ma ai cinesi interessa che l’olio di semi o d’oliva, prodotto in qualsiasi Paese e confezionato in Toscana, sia venduto con il marchio Italia sia nel loro Paese, che negli Stati Uniti dove Sagra è già leader. Quelle aziende italiane che in questi decenni hanno riempito, in Italia e all’estero, gli scaffali di olio da 2 euro se la dovranno vedere con il concorrente cinese che quanto a prezzi e sconti non lo batte nessuno. Con buona pace del “made in Italy”.

Veniamo alla notizia del giorno, anzi di venerdì 26 settembre, quando il Corriere della Sera ha titolato: “Made in Italy, ISA entra nel capitale di Olio Dante”. Il redattore Fabio Savelli scrive ”la firma è arrivata ieri, e dopo l’ok da parte della Commissione Europea, suggella l’operazione di ingresso nel capitale di Olio Dante da parte di Isa, la finanziaria controllata al 100% dal ministero delle politiche agricole. Si tratta di un’iniezione di equity da 15 milioni di euro (otto verranno versati entro la fine dell’anno) sotto forma di aumento di capitale sottoscritto per la metà anche dal socio di riferimento, il gruppo Mataluni. Isa entrerà con una quota del 20% per finanziare l’internazionalizzazione di questa azienda del Sud titolare dei marchi Dante, Topazio, Olita e Vero.”

Ad un lettore che ha superato i quarant’anni nascerà spontanea una domanda: “ma non era stata sciolta l’IRI, e venduti agli amici i gioielli di famiglia (quelli veri) perché lo Stato non avrebbe mai più potuto produrre panettoni Motta e olio Bertolli?” E ad un cittadino che paga regolarmente le tasse e che vede i suoi soldi utilizzati dallo Stato per comprarsi il 20% di un’azienda che produce oli vari verrà la voglia di chiedere al Capo del Governo “Presidente Renzi, questa sarebbe la Sua rivoluzione, passare dai panettoni Motta a l’Olio Dante?” Almeno i panettoni erano un prodotto del made in Italy (e un piacere del palato)! E ancora: “perché privatizzare l’Eni e l’Enel, vendere l’Alitalia agli arabi, e pubblicizzare Mataluni?” Ma che razza di politica è questa? E che fine hanno fatto i paladini dell’informazione sempre pronti a denunciare l’ultimo scandalo, perché questo assordante silenzio dei giornali e della tv su un fatto che rimette indietro le lancette del tempo riportandoci agli anni dello Stato imprenditore? E il parlamento cosa fa? Possibile che non ci sia un deputato o un senatore a cui viene la curiosità di sapere come e perchè è potuto accadere?

Forse è venuto il momento di fare un’operazione verità. Vogliamo raccontare di come un prodotto eccellente della gastronomia italiana, il principe della dieta mediterranea, un alimento utilizzato da sempre da milioni di famiglie sia stato venduto ad una impresa chimica (Montedison) o ad una multinazionale (Unilever) o di come e perché un Paese che detiene il primato, per quantità e qualità, di un prodotto lo cede ad un altro Paese, vedi la Spagna, senza alcuna contropartita; o meglio per uno sviluppo industriale, in particolare favorevole alla FIAT, che si sta rivelando realizzato su un terreno piuttosto paludoso…. Chi è stato, quale classe dirigente, quali partiti e organizzazioni hanno progettato e realizzato la più straordinaria operazione di “bancarotta fraudolenta” di un intero comparto dell’agroalimentare italiano favorendo nello stesso tempo l’insediamento al suo posto di un’industria del confezionamento capace di ridurre l’olio d’oliva da prodotto alimentare a gadget da supermercato.

Iniziamo dalla Montedison. Per i più giovani diremo che si tratta di quella azienda che una volta era la più importante impresa chimica del nostro Paese, al centro dello scandalo (detto tangentopoli) la cui lunga storia si intreccia con quella di due prestigiosi marchi oleari italiani. L’azienda olearia Bertolli (fondata a Lucca nel 1865 dai coniugi Francesco e Caterina Bertolli), fu ceduta nel 1972 alla Alimont (Gruppo Montedison) che due anni dopo confluì nella SME, la società finanziaria dell'IRI per il settore alimentare. Nel 1986 in ambito SME vennero accorpate alla società Cirio, le divisioni Bertolli e De Rica dell'Alivar e fu creata una nuova società: la Cirio, Bertolli, De Rica-Società Generale delle Conserve Alimentari S.p.A, azienda italiana controllata al 99.99% da SME. La Cirio, Bertolli, De Rica fu ceduta nel 1993 alla Fisvi S.p.A. (Società finanziaria lucana) per 310 miliardi di lire per conto del gruppo Unilever. Nel 2008 Unilever cede il marchio, insieme allo stabilimento di Inveruno, per 630 milioni di euro, al gruppo spagnolo Sos Corporación Alimentaria S.A. oggi divenuto Deoleo S.A.

L'affaire Carapelli (l'azienda fu fondata il 23 settembre 1893 a Montevarchi da Costantino Carapelli) coincide invece temporalmente (1989) con la creazione di Enimont (1988), società pubblico-privata per la chimica italiana. Infatti nel 1989 la famiglia Carapelli cede l'azienda alla Cereol, società del Gruppo Ferruzzi, facente parte del colosso Montedison. Nel giugno 2002 l'azienda viene ceduta ai fondi BS Private Equity, Arca Impresa Gestioni Sgr e Monte dei Paschi Venture. Dal marzo 2006 Carapelli Firenze S.p.A. fa parte del gruppo spagnolo Sos Corporaciòn Alimentaria S.A. oggi divenuto Deoleo S.A.

Veniamo all’operazione ISA-Olio Dante spa.
L’ISA, Istituto per lo Sviluppo Agroalimentare, è una società per azioni il cui capitale è interamente detenuto dal Ministero delle politiche agricole e alimentari. Sede in Roma, trentacinque dipendenti, un Presidente amministratore unico nominato da qualche mese e parecchi soldi da investire “per promuovere e sostenere progetti per lo sviluppo agroalimentare attraverso finanziamenti a tasso agevolato e partecipazioni azionarie di minoranza nel capitale sociale”. Secondo il bilancio 2013 lo scorso anno l’Istituto ha approvato cinque iniziative per il valore complessivo di 30 milioni di euro, la metà per quattro mutui e l’altra metà per acquisire il 20% del capitale sociale di “Olio Dante”, un gruppo oleario proprietario anche di altri marchi dell’olio: la motivazione è l’incremento della produzione vendibile del gruppo da 25 a 35 milioni di euro, un quarto in più rispetto ad oggi. Non si può non essere felici per l’iniziativa che è riconducibile al precedente Cda di ISA (Presidente l’avvocato Saverio Stecchi Damiani, nominato dal governo Monti) oltre che per gli 89 dipendenti (in media) del gruppo oleario: 15 milioni di euro garantiranno un futuro migliore all’azienda, coinvolta in una ormai annosa controversia per questioni edilizie con il comune di Montesarchio legate alla realizzazione di un nuovo stabilimento, finanziato anche con un contributo della Regione Campania. I dubbi sorgono quando si legge nel comunicato emesso il 25 settembre, dopo l’incontro tra il Ministro delle politiche agricole Martina e i dirigenti del gruppo, che l’olio esportato dal gruppo stesso per circa 90 milioni di euro l’anno è costituito solo per il 45 per cento da olio prodotto in Italia da olive italiane, una quota che in futuro dovrebbe diventare del 65 per cento grazie ai 15 milioni di euro di nostri soldi. Qualcuno potrebbe ritenere che quella dell’olio esportato prodotto in Italia è una percentuale piuttosto bassina per il complesso di marchi italiani targati Mataluni e che forse non valeva la pena di spendere 15 milioni per aumentare quella percentuale. Ci può essere qualcuno che si domanderà se l’intervento dell’ISA nel capitale sociale di una società per azioni privata non segni per caso il ritorno al capitalismo di Stato, con tanti saluti alle norme CEE che lo vietano. Si rassicuri: fatta la regola, trovata un’altra regola. L’operazione ha il consenso della Comunità Europea in quanto l’Istituto si è presentato (e formalmente lo è) come operante da fondo di “private equity”, un fondo come tanti altri gestito da una società al 100% dello Stato: ne consegue che i suoi mutui hanno la (seppure indiretta) garanzia statale. Altre risorse dovrebbero arrivare dalla proprietà del Gruppo: le indicazioni in proposito sono piuttosto vaghe. Sembra che venga ceduto un ramo d’azienda, ma non è dato sapere quale. Magari si tratterà di quello della commercializzazione di olio di semi, il 30 per cento delle esportazioni del gruppo, al cui capitale ISA parteciperà per potenziare il settore olivicolo nazionale!

In tutto questo c’è una sola certezza: quella ISA-Olio Dante è una operazione finanziaria molto sofisticata, lungamente studiata e calibrata e condotta con grande abilità che premia i commercianti di olio piuttosto che i produttori che si dibattono tra mille difficoltà e non hanno un istituto finanziario provvidenziale per le loro esigenze. Da una parte un fondo inglese che compra marchi italiani prestigiosi, dall’altro il Ministero delle politiche agricole che tramite il suo braccio secolare irrobustisce grandi gruppi oleari con qualche problema. Le piccole e medie aziende vere produttrici di olio dalle olive cominciano a chiedersi se vale continuare a lottare su un mercato di cui vengono continuamente falsate le regole: il giaguaro divora tanto più facilmente l’antilope se ad aiutarlo c’è un amico, l’amico del giaguaro. Forse è ora di dargli un nome. Sorge infatti spontanea una domanda: è possibile che nessuno si sia chiesto se un aiuto pubblico ad un soggetto che importa olio per poi esportarlo con un marchio italiano vada veramente nella direzione di valorizzare il “made in Italy” o non piuttosto dà ragione a chi acquista i marchi italiani per esportare poi prodotti che con l’Italia hanno poco o nulla a vedere?

Difficile, difficilissima da comprendere una strategia che danneggia ciò che dovrebbe favorire. Qualcuno dirà che il genio è qualità di pochi: molte scuse per non avere un simile privilegio.
Comunque tanti auguri alle “nuove” iniziative imprenditoriali che dovrebbe contribuire al rilancio sui mercati esteri dell’olio italiano. Sembrerebbe di capire di tutto l’olio, non solo di quello d’oliva, visto che il 30 per cento dell’olio esportato dal gruppo Mataluni è olio di semi, così come, con un altro 40 per cento, provvede il gruppo Salov.
Con molte scuse per il disturbo.

 

Giampaolo Sodano è Direttore AIFO

di Giampaolo Sodano

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Commenti 3

vittorio orlando
vittorio orlando
12 ottobre 2014 ore 20:28

GRAZIE DOTT,SODANO ,POCHI HANNO IL CORAGGIO DI DIRE VERAMENTE LE COSE COME SONO.DAL SUO ARTICOLO TRAGGO ULTERIORE CORAGGIO AD INCITARE GLI OLIVICOLTORI A NON LASCIARSI INTIMIDIRE,MA A FARE SQUADRA PER DIFENDERE IL LORO LAVORO,PRODURRE QUALITA' VERA.' I CONSUMATORI, VERRA' IL MOMENTO CHE SI CHIEDERANNO COME MAI L'OLIO VERO PUO' COSTARE 2,50 AL LITRO. GRAZIE

Romano Satolli
Romano Satolli
11 ottobre 2014 ore 11:54

Penso invece che, oltre alla cupidigia dei soldi delle tante aziende di famiglia create da veri imprenditori capaci, le generazioni successive, cresciute nella bambagia (non tutte), non siano in grado di gestire le aziende dei loro nonni. Quindi cerchiamo le colpe anche in tanti successori che sono cresciuti senza problemi, con unico pensiero di possede Yacht, belle donne, Ferrari e lussi analoghi.

Massimo Foglino
Massimo Foglino
11 ottobre 2014 ore 08:35

Io credo che l'assassino siano le famiglie originarie. Tutte complici in "omicidio premeditato dettato da non futili motivi (soldi) e incapacita' continuata in malagestione aziendale".
Chi ha vissuto nel comparto OLIO nei tempi indicati, sa bene quanto questi capitani di industria furono cosi incapaci di continuare a gestire aziende nate per vera passione. Il dopo e' solo una conseguenza, per cui prendetevela con questi signori (ci sono ancora) che per puro calcolo di convenienza, nei tempi in cui le aziende alimentari erano appetite, decisero di (s)vendere i gioielli. Altri (e ce ne sono non pochi) hanno invece perseguito altre strade di continuita' con risullati che si vedono eccome. Incapacita', ignoranza, superficialita', ingordigia : questi i capi di accusa. Pollice verso.