L'arca olearia
Italia olearia sempre più nana e povera
L’esperto di marketing Massimo Occhinegro interviene intorno al Manifesto per il risorgimento dell’olio italiano, in risposta alle osservazioni di Gigi Mozzi, altro esperto marketing
16 aprile 2011 | Massimo Occhinegro
Il seguente intervento è stato pubblicato quale commento in coda alla lettera che ci è giunta in Redazione a firma di Gigi Mozzi. Vista l'ampiezza del commento, abbiamo ritenuto opportuno riportare l'intera nota a beneficio di coloro che non l'avessero finora letta, nella speranza che certi temi possano determinare altre prese di posizione.
Lo ripetiamo fino a risultare anche ripeteitivi, ma, si sa, repetita iuvant: Teatro Naturale non è per il pensiero unico, tutti hanno voce in capitolo. E, per intanto, buona lettura. (TN)
La lettera del Sig. Mozzi è inficiata da preconcetti di fondo, probabilmente perché parte da una visione soltanto parziale dell’arena competitiva e dei suoi players. Dalle sue parole emergono precisi attacchi non tanto al “Manifesto per il Risorgimento dell’Olio italiano”, che ne costituisce il pretesto, ma piuttosto, direttamente o indirettamente, verso un solo attore del comparto: l’industria.
Se è vero che in questa fase critica del comparto “olio di oliva” occorra riflettere sul “to do”, è altrettanto vero che innanzitutto sarebbe necessario, oltre che auspicabile, partire da posizioni non dicotomiche, ma di comprensione reciproca.
Sicuramente la lettera del Sig. Mozzi non aiuta molto in questo senso. La questione a mio parere più sorprendente e anche se vogliamo, più paradossale anzi direi più “allarmante”, per chi crede come me nel “Risorgimento”, è che il Sig. Mozzi, che non si è presentato nella sua veste professionale, appare come una persona di “cultura”.
Per questa ragione mi sarei aspettato un intervento più riflessivo sul comparto, un intervento che valutasse serenamente tutti gli aspetti, in un quadro complessivo d’insieme. Ciò non è avvenuto. Ne è emerso un “dipinto” a due colori in cui , gli “Angeli”, ovviamente, sarebbero i produttori oltre che, sorprendentemente, la Gdo, mentre i demoni sarebbero rappresentati, in via del tutto esclusiva, dall’Industria. Inoltre la visione del Sig. Mozzi è miope in quanto non considera lo scenario competitivo mondiale.
Quest’ idea “tarlo” e questo preconcetto, peraltro trasversale tra i produttori, fanno comprendere che non solo non si conosce il comparto nella sua interezza, ma anche che non si conoscono la storia, nonché le questioni che hanno caratterizzato il passato del settore oleario.
Non ci sono, né ci sono stati solo “Angeli” da una parte e “Demoni” , esclusivamente dall’altra, ma gli uni e gli altri, hanno convissuto e tuttora convivono , permeandone tutta la filiera, così come del resto è avvenuto ed avviene nella società civile, da tempi remoti, almeno per quanto è vecchio il mondo. Anzi, dirò di più , nel passato gli Angeli ed i Demoni spesso andavano anche a braccetto; ma forse questa è un’altra storia che forse il Sig. Mozzi non conosce.
Veniamo alla lettera. Critiche sono state mosse per il fatto che si sia evidenziata la necessità di offrire “pari dignità” a tutta la gamma degli oli di oliva. Il Sig. Mozzi implicitamente salverebbe solo l’olio extra vergine di oliva mentre del resto non saprebbe cosa farsene, a quanto pare. Ma bene inteso, solo l’olio venduto dai produttori sarebbe vero extra vergine, “l’altro” venduto questa volta dagli industriali-confezionatori, sarebbe quello falso.
Il falso quindi è una prerogativa sola ed esclusiva dell’industria. Forse possiamo dire un falso d’autore, nella misura in cui, l’industria è anche di marca, avendo investito negli anni milioni di euro in comunicazione, evidentemente mendace, con il solo scopo di ingannare il consumatore.
Il Manifesto, in questo senso, parla chiaro. Occorre salvare e salvaguardare tutti gli oli di oliva perché tutti derivano dall’unica materia prima “l’oliva”. E poiché è impensabile che tutto l’olio di pressione prodotto possa essere classificato “extra vergine” e che anche in quest’ambito, ci possono essere oli non eccellenti, anche la figura dell’oleologo, contribuirebbe a una sua più precisa “classificazione” , non trascurando anche le “innovazioni” della ricerca del comparto per il suo miglioramento.
Alcuni numeri possono forse aiutare. L’Italia ha una produzione media effettiva di 350 mila tonnellate di olio di pressione. Solo 150–200 mila tonnellate potrebbero forse essere considerate come “extra vergine”. Molte tra le zone più produttive (Salento e parte della Calabria) sono anche zone di produzione di olio lampante. I numeri ufficiali che partivano dalle 750–800 mila tonnellate del passato, se non di più, sono d’incanto negli ultimi anni, diminuiti. Per colpa dell’abbandono degli uliveti? Mah, chissà perché!
Ancora oggi non sono disponibili dati aggiornati sulla produzione italiana ma solo e sempre stime. In Spagna, ad esempio è possibile controllare “on line” i dati produttivi. Anche questo è un esempio dell’arretratezza del nostro sistema. I dati sui consumi parlano invece di 750 mila tonnellate di consumo nazionale. E’ quindi evidente che l’Italia è importatore netto già solo a partire dal soddisfacimento della domanda intera.
Quindi quella quantità esigua da noi prodotta (piccola giacché posta a confronto con una produzione globale di 2.948.000 tonnellate di olio di pressione) deve essere valorizzata, diversamente diventeremmo ancora più nani di quello che già siamo.
Il Manifesto parla di “gerarchia di valore” ed è evidente che solo una chiara etichettatura oltre che una adeguata comunicazione , possano riuscire a trasmettere tale distinzione di valori. D’altra parte mi pare che anche gli oli di semi siano, per la maggior parte, prodotti oggetto di estrazione e raffinazione, e che abbiano caratteristiche nutrizionali diverse.
A mio parere tutti gli oli di oliva hanno valori nutrizionali superiori agli oli di semi, ed è per questo che dobbiamo anche pensare a contrastare la concorrenza con gli oli di semi, soprattutto nell’uso per frittura, dove dominano incontrastati. Se pensiamo anche ai mercati internazionali, dove l’olio di oliva non essendo un prodotto autoctono, è misconosciuto, l’approccio con oli più delicati (quali l’olio di oliva e l’olio di sansa di oliva) è sicuramente uno strumento utile per approcciare i consumatori esteri abituati agli oli “flat”, per poi condurli verso oli più “pregiati” e nell’ambito di questi, quelli che hanno gusti più “decisi”.
Sicuramente è meglio operare in questo modo, piuttosto che offrire oli extra vergini “deodorati” che l’innovazione della ricerca ha aiutato a scoprire per via analitica. E badiamo bene che qui sottolineo un male dell’industria per far capire che la riflessione sui “mali” deve essere generalizzata. Se poi vogliamo comprendere le cause e le origini di questo male, dovremmo fare una relazione a parte, che includerebbe anche il “buon” mestiere della Gdo.
Continuando con ipotesi competitive sane, gli oli più “delicati” diventerebbero il nostro prodotto “civetta”, usato questa volta in modo intelligente, (contrariamente a quanto avviene grazie alla “Gdo Angel”) , con il fine “nobile” di dirottare i consumatori verso un prodotto con un valore aggiunto più alto, aiutando quindi tutti gli attori della filiera.
Al momento chi persegue questa strada è la Spagna, mentre noi siamo al palo giacché si incontra la riluttanza anche di alcuni importanti protagonisti della filiera olearia, sul fronte “industriale” e anche da parte delle stesse associazioni dei produttori i quali, “dimenticano” che gran parte della produzione olearia non è “direttamente” fruibile (oli lampanti) ma è pur prodotta. Ma forse si vorrebbe che tali oli venissero impiegati nel campo energetico, rivitalizzando il significato di “lampante” , in chiave decisamente più moderna e al passo con i tempi.
L’industria venderebbe quindi oli non naturali. Infatti i piccoli sarebbero gli unici a vendere un prodotto naturale e genuino, mentre i secondi venderebbero, per contro, un prodotto “taroccato”; questo sembrerebbe il concetto che il collega lettore, vorrebbe far intendere. La domanda sorge spontanea: ma chi vende l’olio extra vergine di oliva ai confezionatori? Non sono forse i produttori e i frantoiani?
Se poi guardiamo ai bilanci delle imprese olearie scopriamo che a fronte di fatturati di centinaia di milioni di euro, in alcuni casi, ci sono mediamente utili molto, se non estremamente modesti. Se invece guardiamo, dall’altro lato i bilanci della Gdo, scopriamo che al contrario questa volta gli utili sono di altra dimensione. E quale ne sarà la ragione?
I fatturati milionari sono frutto della capacità dell’industria di saper affrontare i mercati con capacità ossia con risorse umane migliori, nonché con gli investimenti costanti, in impianti e macchinari ma anche in comunicazione. Una riflessione: chi ha lanciato l’olio di oliva nel mondo? Forse i produttori? Chi ha continuato ad investire nel comparto, i produttori? E perché le industrie hanno investito ed i produttori no? Non è forse perché i secondi possono comunque contare su provvidenze comunitarie che le rendono per questo in molti casi, inefficienti?
Se è vero che in Italia abbiamo il record del numero delle Dop, è vero anche che molte sono assolutamente inutili, nate per creare ulteriori divisioni territoriali e quindi ulteriori frammentazioni, al fine di creare posti di lavoro o meglio poltrone.
La frammentazione di qualsiasi comparto non aiuta il comparto stesso giacché le strategie di sviluppo eventualmente pianificate, non possono essere implementate in quanto carenti di almeno due requisiti essenziali: capacità e denaro. Chi ha avuto modo di stabilire contatti con alcuni consorzi Dop ha potuto verificare come in molti casi ci sia “approssimazione” e poca professionalità.
Anche qui ovviamente non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono consorzi Dop ben organizzati e ben condotti che possono essere da esempio per altri. Talmente da esempio, che in alcuni casi altri consorzi Dop hanno fatto un “copia e incolla” delle caratteristiche degli olii, tali da non poter essere rispettati dai propri.
Le divisioni sono dovunque, quindi, e mentre noi ci dividiamo sempre di più, gli altri godono, comprano i nostri marchi più prestigiosi, e impongono i propri grazie ad una strategia comune che noi ci sogniamo di avere. Altri Paesi a parte la Spagna, crescono invadendo i mercati internazionali a nostro danno ossia a danno di tutto un comparto.
In buona sostanza noi diventiamo sempre più nani e sempre più poveri, continuando a lottare tra di noi, mentre gli altri fanno i numeri, crescendo sempre di più. Diventa allora necessario che i players più importanti rappresentati da Assitol, Federolio, Unaprol, Confagricoltura, Consorzio di garanzia dell’extra vergine di qualità, si riunissero e facessero le riflessioni più giuste per aiutare il sistema Italia dell’olio considerando le nostre forti lacune anche se non soprattutto in termini produttivi, (300 mila contro 2.948.000 tonnellate di cui sopra e 750 mila solo necessarie per il consumo interno e quindi a part l’export) lasciando stare tutti i preconcetti che pure esistono, da una parte e dall’altra.

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Accedi o RegistratiGiovanni Piras
20 aprile 2011 ore 21:14Caro Occhinegro, continuiamo pure in pochi.
Le chiedo: perché chi è disposto a spendere 20 euro per la bottiglia che consuma (e sottolineo consuma) alla domenica, non dovrebbe essere disposto a spendere altrettanto per un prodotto che gli durerebbe (e sottolineo durerebbe) per varie settimane? Forse è solo una questione di commercializzazione. Magari ignoro qualche dettaglio e quello che sto per dire è ingenuo, ma io mi sono sempre chiesto come mai non si vendano gli oli chiamandoli Bosana o Leccino o Coratina ecc. e lasciando che il mercato ne differenzii i prezzi. Mica sulle bottiglie di vino ci scrivono Vino; o, per lo meno, non è quella la scritta principale. Se si vendesse tutto come Vino Extra Vergine o Succo d'Uva Fermentato, scrivendo in piccolo il tipo di vitigno, probabilmente il signore della domenica di cui sopra affiderebbe alla moglie (ma non saremo un po' maschilisti?) anche l'acquisto del vino in cartone per il dì di festa. Non pensate che alcuni oli molto costosi, noti per il loro prezzo e che facciano tendenza potrebbero essere un buon volano per indurre i meno abbienti all'acquisto, con soddisfazione, di un olio dal prezzo più contenuto rispetto agli oli di massimo pregio, ma superiore al prezzo di svendita che se ne fa oggi?
P.S.: non intendo ignorare quanto lei ha detto a proposito delle differenze tra il mercato del vino e quello dell'olio legate ai diversi rapporti di domanda e offerta; semplicemente mi sono concentrato su un altro aspetto
P.P.S: per la redazione: non sarebbe possibile invertire l'ordine di nome e cognome a capo del commento? Leggere prima il cognome è davvero brutto. Grazie
massimo occhinegro
18 aprile 2011 ore 12:12Mi fa sempre molto piacere dialogare. Mi piacerebbe che su questo tema ci fosse più interesse in generale e più attenzione. Ci tengo molto allo sviluppo della nostra agricoltura e rimango basito quando di fronte ad una competizione globale sempre più crescente e difficile, chi dovrebbe intervenire (mi riferisco oltre che agli attori anche ai governi di destra e di sinistra, nonché alle istituzioni pubbliche e private) se ne sta con le mani in mano. Ed intanto assistiamo ad una lunga e lenta agonia della nostra agricoltura
Giovanni Piras
18 aprile 2011 ore 07:28Grazie per l'attenzione che mi ha dedicato
massimo occhinegro
18 aprile 2011 ore 06:47Condivido le parole di Luigi Caricato. La dimostrazione che ci sia un forte interesse a mantenere lo statu quo è dimostrato anche dalla semplice constatazione che in questo "dibattito" ci siano solo 3 persone. Spero al momento. Il mercato del vino difficilmente può essere comparato a quello dell'olio. Ci sarebbero alcune differenze sostanziali. La prima è ad esempio quella produttiva. Non ho i numeri a mia disposizione , ma credo che l'Italia produca molto di più di quello che consuma nel mercato domestico, a differenza del comparto oleario. In ogni caso anche qui da consumatore, ci sarebbero dei dubbi sulle quantità ad esempio di "Brunello di Montalcino" o di "Chianti". Tuttavia nel comparto oleario , lo ripeto, siamo importatori netti e di parecchio pure. Mancano mediamente 500.000 tonnellate di prodotto che dobbiamo necessariamente importare. Il fatto che poi spesso si importi come lo chiama Piras ,usando un termine molto comune tra gli oleari, "piscia di gatto", è dovuto alla competizione del settore ed inoltre alla mancanza di educazione al gusto dei buyers e soprattutto dei consumatori. Un fatto però è certo, il mondo produttivo a parte i miglioramenti nella qualità, non ha investito in quantità, ovviamente mai al livello Spagnolo. Il problema è anche strutturale: troppa frammentazione. Il nostro plus è costituito dall oltre 300 varietà rispetto al resto del mondo. Ma i consumatori, proprio perchè non "educati" non ne capiscono le differenze. Un prezzo di 10 euro al litro è ovviamente impensabile per un consumo di massa. Il consumatore medio può spendere anche 15-20 Euro se non di più per un vino che consuma alla domenica (certo non la "massaia media") ma non spenderà mai la stessa cifra per un prodotto che usa in cucina quotidianamente. Paradossalmente il consumatore che acquista un vino "caro" non si occupa dell'acquisto dell'olio, demandandolo alla propria moglie, la quale acquista spesso un olio di basso livello. Ecco che allora dovremmo far breccia intanto in quel target di consumatori, diciamo di fascia alta. Certamente chi può contare su un reddito di 1.500 euro al mese, se va bene, difficilmente impegnerà grosse cifre per l'acquisto del'olio. Definire l'olio extra vergine "succo d'oliva" può non essere "la soluzione" ci mancherebbe, ma sicuramente potrebbe essere il punto d'inizio per evitare speculazioni, con opportune strategie ben pianificate.
Giovanni Piras
18 aprile 2011 ore 00:29Grazie. Ora sono soddisfatto.
Le propongo, però, due dubbi, forse ingenui, ma che vorrebbero essere costruttivi. Il primo, per la verità, mi sembra che se lo ponga lei stesso, quando prevede speculazioni anche per il succo di oliva e scarsa sensibilità istituzionale contro di esse: non le sembra che, se davvero è così, la mossa di creare la categoria del succo di oliva sia soltanto un muretto destinato a cadere sotto l'ondata della prossima speculazione? Per quale motivo dovrebbe avere più forza contrastiva di quanta ne abbia avuto la categoria dell'extra vergine? Secondo dubbio: mi par di capire che il problema, secondo lei (e io sono d'accordo), è dato dall'appiattimento dei prezzi tipico delle commodity; ma perché l'olio lo è diventato? Perché non può avvenire per l'olio quello che avviene per il vino, perché non ci dovrebbero essere un barolo o un brunello dell'olio, degli champagne, dei morellini e dei generici rossi o bianchi? E perché (e qui è il dubbio) questa diversificazione non dovrebbe/potrebbe avvenire all'interno della categoria dell'extra vergine? Non sarà che la frode quantitativa da lei segnalata si accompagna a una frode qualitativa? Se si dichiara una produzione maggiore di quella reale, la differenza di prodotto non la si andrà a prendere all'estero o, peggio, non la si otterrà per rettificazione occulta? Non è forse per questo che si è verificata la sparizione dell'olio vergine che, se tornasse sul mercato per effetto di controlli severi, non potendo avere un prezzo troppo basso, farebbe salire le quotazioni dell'extra vergine?
Non vorrei essere frainteso: non sono affatto ostile al succo di oliva (basta che ne sia escluso il "piscio di gatto" spagnolo: se no, a cosa serve?), anzi! Ma mi chiedo: perché dovrebbe funzionare? A meno che (e questo mi pare che manchi dalle vostre proposte, ma potrebbe essere una mia svista) non si affidi la differenziazione, invece che ai parametri oggettivi (che dovrebbero avere un ruolo di sbarramento), all'opera soggettiva ma efficace (come nel campo del vino) dei critici e degli input differenziatori che essi potrebbero dare al mercato, basandosi su considerazioni organolettiche.
Alle domande che lei si e mi pone non sono in grado di rispondere. Ma mi sembra che la risposta data da lei sia valida
Giovanni Piras
17 aprile 2011 ore 21:32Gentile Caricato,
io mi sono dichiarato insoddisfatto non perché non ritenga importanti i principi del manifesto e le obiezioni che al riguardo sono state sollevate, ma perché ritengo che il problema dei problemi sia quello che ho esposto nel mio commento. Tale problema non va confuso col mio sogno di guadagno personale, ma consiste nelle due domande che ho posto; anzi, forse solo nella seconda di esse, purché si risponda affrontando il dubbio che ho espresso nell'ultima frase del mio intervento. Quando mi avrete dato questa risposta, allora potrò apprezzare meglio il valore culturale del resto della discussione. Esso mi è tutt'altro che indifferente; ma quando ho usato il termine "fondamentale" riferito al problema da me posto, non intendevo dire banalmente "il più importante", ma "quello che sta alla base di tutti gli altri". Vorrei che si partisse da lì. E rifaccio le domande
massimo occhinegro
16 aprile 2011 ore 15:47Gent.mo Sig. Piras, la comprendo benissimo. Purtroppo il problema alle volte puo' sembrare piu' grande di noi. Le chiedo di dare un'occhiata all'osservatorio dei prezzi su teatro naturale. Confronti i prezzi al Kg di olio Italia e olio Spagna ed olio Grecia. Per il resto comprenda che la Gdo fa il resto.
Giovanni Piras
16 aprile 2011 ore 13:20Scusate, ma sento l'esigenza di portare il discorso a un livello terra terra.
Nella mia limitata conoscenza di consumatore e di minuscolo produttore, mi sento alquanto insoddisfatto tanto dal Manifesto, quanto dalle critiche del signor Mozzi e dalle successive repliche alla sua lettera. Il problema fondamentale (che è lo stesso per i produttori contadini, artigiani e industriali e per i consumatori) è quello dato dal costo, dalla qualità e dal rapporto fra costo e qualità dell'olio che viene venduto come extra vergine d'oliva. Consentitemi di metterla in termini egocentricamente onirici: io sogno un mondo in cui poter vendere il mio olio a non meno di 10 euro al litro (e mi sto tenendo basso), così da poter provvedere alla raccolta e alla trasformazione pagando gli operai secondo tutti i crismi di legge e facendo il signore come le mie proprietà dovrebbero consentirmi. Allora trovo che non sia importante se l'extra vergine che vedo negli scaffali è fatto da un'industriale o da un artigiano: a me interessa, da produttore, che quell'olio non mi faccia concorrenza sleale e, da consumatore, che sia veramente il prodotto che mi viene presentato. Quindi le domande che, ritengo, ci si dovrebbe porre sono queste: 1) Come si fa a portare il prezzo standard di un litro di olio extra vergine a circa 10 euro, con oscillazioni al di sopra o al di sotto di questa base giustificate, per un verso, dall'eccellenza del prodotto (o anche, perché no, dalle capacità di commercializzazione e di propaganda), per l'altro, da episodiche e misurate offerte speciali? 2) Come mai si trovano negli scaffali dei supermercati oli extra vergini a prezzi stracciati e non solo in occasione di promozioni?
In fondo si tratta di un'unica domanda dal duplice aspetto. Credo che, per poter risolvere il primo punto, sia necessario rispondere prima al secondo quesito e vorrei precisarlo meglio: siamo sicuri che gli oli extra vergini a basso costo siano effettivamente quello che, per voce delle loro etichette, dicono di essere? E, se lo sono, sono stati prodotti in modo giuslavoristicamente le(g)ale?
Il problema che avverto io, insomma, non è se si possano o meno commercializzare oli di qualità inferiore all'extra vergine e quanta dignità essi possano avere, ma che i produttori (siano essi contadini, artigiani o industriali) guadagnino bene dalla loro attività senza sfruttare il lavoro di dipendenti locali o esotici e che i consumatori possano decidere se spendere poco e prendere un prodotto di scarsa qualità o spendere di più e portarsi a casa un prodotto di valore. Ma, quando un olio etichettato come extra vergine di oliva costa perfino meno di 2 euro, il dubbio che qualcuno stia fregando gli altri produttori e stia ingannando i consumatori non può non venire.
Un saluto a tutti
massimo occhinegro
21 aprile 2011 ore 07:30Caro Piras, la ringrazio per il suo interesse sul tema. Rispondo alle sue domande, partendo dalla scontata ma doverosa premessa che nessuno ha la bacchetta magica per risolvere la situazione non piacevole in cui ci troviamo. Ognuno cerca di dare una ricetta per migliorare le condizioni di un mercato c'è chi agisce e lo fa apparentemente con questo nobile intento, ma nei fatti lo fa solo per proteggere sè stesso, c'è chi lo fa trascinato dalla passione per l'olio e solo per questo credo che sia ammirevole. Scardinare certi sistemi non è facile e quando lo si fa si rischia di bruciarsi, come minimo. Il Manifesto è anche , se vogliamo, una campagna di sensibilizzazione rivolta alle anime più coscienziose del settore, e mi creda non sono tantissime. Alcune forti, meno virtuose, prodigano attacchi ingiustificabili. Detto questo, passo alle risposte.
1) La risposta a mio parere è questa, dove si compra prevalentemente il vino buono (non quello che si usa normalmente in cucina)? Secondo me in enoteca. Chi compra il vino da cucina ed invece chi compra un buon vino? Mediamente la "mamma" nel primo caso ed il "papà" nel secondo. Per poter far fare una scelta consapevole (come avviene per il vino) ci vuole la vendita "assistita" e non quella da "libero servizio" del supermercato. Quindi Lei ha centrato una questione. Dobbiamo fare in modo che quelle persone che comprano il vino da 20 euro, possano capire che anche la scelta di un buon olio sia importante. Non possiamo pensare di farlo nei confronti della massa (nel marketing purtroppo si usano termini "maschilisti" , ciò ovviamente non significa che io lo sia, anzi il contrario) ma dobbiamo farlo nei confronti di quel "target" di consumatori che spende i famosi 20 euro per il vino. Dopo aver fatto questa educazione, forse possiamo estendere come un "virus" alle altre categorie. Sarebbe però già un bell'obiettivo coprire quel famoso target. 2) Per il fatto che non si vendano gli oli chiamandoli con il nome del vitigno credo che possa solo abbozzare una risposta. Credo che sia dovuto alla storia "recente" dell'olio confezionato (50 anni) rispetto a quella del vino. Negli anni '60 eravamo invasi dalle pubblicità dei grandi nomi di aziende che proponevano i "grandi" oli di semi. Il settore dell'olio di oliva confezionato era in mano a poche aziende che nulla potevano fare per contrastare tale egemonia sia finanziaria che comunicativa. D'altra parte l'olio di oliva in Italia veniva consumato soprattutto nelle regioni di produzione e spesso in "autoconsumo". Non c'era una regolamentazione delle qualità che il legislatore ha voluto attuare definendo le varie qualità che poi sono state " scremate" nel corso degli anni. Solo negli anni '80 si è capita l'importanza dell'olio di oliva quale importante elemento della dieta mediterranea. Il vino era già inserito nella piramide, mentre l'olio di oliva era trattato credo, alla stregua di un qualsiasi grasso alimentare, forse quasi alla pari con lo strutto..ma non vorrei esagerare. In buona sostanza vino vecchio, olio nuovo.3) sicuramente potrebbe accadere che alcuni oli eccellenti la cui quantità non è elevata, possano diventare un volano, ma occorre fare tutto questo utilizzando i giusti canali, enoteche che si dovrebbero trasformare in enoteche-oleoteche e quindi anche ristoranti. Molte enoteche infatti riforniscono di vino i ristoranti; ciò non accade per l'olio. La denominazione succo d'oliva potrebbe servire per fare questo ingresso.