La voce dell'agronomo

PAROLA D’ORDINE: EXPORT

Con consumi interni in calo anche in settori tradizionalmente forti come frutta e verdura e formaggi, non resta che l’esportazione verso mercati esteri che però premiano l’alta gamma, tanto meglio se certificata. L'unico spiraglio è nelle tre T di tipicità, territorio e tradizione

24 gennaio 2004 | Alberto Grimelli

Non c’è da sorridere. Nel 2003, ultimo anno di crisi secondo il governo e i principali osservatori economici, si sono registrati cali non elevati ma significativi dal punto di vista simbolico anche per prodotti che, tradizionalmente non hanno mai risentito eccessivamente di periodi di recessione.
Per i formaggi, secondo l’Osservatorio Ismea-Nielsen, nei primi dieci mesi dello scorso anno la contrazione dei consumi è stata pari al 5%. Per l’ortofrutta, nello stesso periodo, il calo si attesterebbe sul 1,5%.
Per far fronte a queste battute d’arresto nelle vendite interne gli agricoltori sono costretti a volgere gli occhi verso mercati esteri, appetibili non solo in quanto recettivi nei confronti delle nostre produzioni, ma soprattutto interessati proprio a quelle derrate alimentari che rispettano maggiormente i canoni delle tre T (tipicità, territorio, tradizione). Nessuna sensazione, sono dati quelli che indicano una rilevante attenzione verso produzioni pregiate e magari anche certificate. Qualche esempio, eccolo. Parmigiano Reggiano e Grana Padano segnano, nei primi nove mesi del 2003, una crescita del 14% delle vendite all'estero rispetto al gennaio-settembre 2002, a conferma di un trend in continua ascesa (già nel 2002 si era toccato il massimo dell'ultimo quinquennio con un totale di 40mila tonnellate). Sulla stessa lunghezza d'onda anche il Gorgonzola, che segna un più 8% su base annua e il Provolone, in aumento del 13%.
Ho parlato di certificazione non a sproposito, ma ben cosciente che prodotti che possono fregiarsi di qualche bollino di garanzia e di qualità hanno molte più possibilità di affermarsi su mercati esteri, in particolare quelli lontani non solo geograficamente ma anche culturalmente e culinariamente dall’Italia. I gusti, gli aromi, le sensazioni derivanti da un piatto o un prodotto sono sconosciuti ai più che conoscono invece da foto, filmati o testi i paesaggi e le ricchezze di cui il Bel Paese è pieno. Quando assaggiano un nostro prodotto non si nutrono soltanto, ma si lasciano andare a suggestioni, emozioni che rimandano a immagini o magari anche fantasie che vanno ben al di là delle caratteristiche intrinseche dell’alimento.
Questo non significa quindi che queste persone siano degli sprovveduti acquirenti o consumatori, anzi, di solito hanno un alto livello di scolarizzazione e molta curiosità. Le loro conoscenze in materia di agricoltura e prodotti tipici italiani sono approfondite, anche se non prive talvolta di clamorose ed eclatanti imprecisioni o inesattezze. Sono disposti a spendere anche cifre considerevoli per un tour gastronomico all’insegna dell’italica buona cucina purché convinti e confortati della esatta e certa provenienza del prodotto. La certificazione, il bollino, il marchio di qualità fornisce loro questa garanzia.
Ben vengano quindi le denominazioni d’origine, siano esse localizzate (dop o igp) o generiche (made in Italy o made in Europe), le certificazioni di prodotto (biologico, integrato..) o di filiera, che possano contribuire a mantenere inalterata la fiducia del consumatore straniero. Non possiamo però accodarci ai continui cori di osanna innalzati per promuovere indiscriminatamente ogni nuovo contrassegno o emblema di tutela e promozione. Inflazionare il concetto stesso di certificato, di prodotto di nicchia e d’alta gamma produce dubbi, incertezze che nuocciono all’immagine del nostro Paese e della stessa Europa.

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