La voce dell'agronomo

DOP E IGP, TROPPA BUROCRAZIA

Tipicità e tracciabilità sono elementi chiave per il futuro. A richiederli è il consumatore. Ci vogliono però diversi anni affinché un prodotto possa fregiarsi del tanto ambìto bollino giallo-blu delle denominazioni

13 dicembre 2003 | Alberto Grimelli

Anni, anni e anni perché si passi dalla fase istruttoria all’effettiva messa in commercio del prodotto con bollino di garanzia a denominazione d’origine, che sia Dop o Igp. Le procedure sono troppo lunghe e complesse.
Come è giusto che sia, si parte dal territorio, con la creazione di un consorzio per l’istituzione di una Dop o Igp da parte di un gruppo di produttori interessati e molto motivati, vista la trafila burocratica che li aspetta, spesso con l’appoggio di associazioni e istituzioni locali. Questo organismo deve raccogliere dati e informazioni per verificare che il prodotto che vogliono fregiare del marchio comunitario sia realmente tipico del territorio (ricerca storica), abbia caratteri di pregio (nutrizionali, salutistici, chimico-fisici…) e che attraverso un processo di certificazione si possa realmente controllare la tracciabilità dell’intera filera.
Se tutto questo iter, monitorato dalla Regione di appartenenza, va a buon fine, il consorzio passerà alla creazione, ex novo, di una bozza di disciplinare di produzione che, una volta approvato dal competente ufficio regionale, verrà trasmesso prima al Ministero delle Politiche agricole e poi a Bruxelles. Già solo così i tempi sarebbero piuttosto lunghi, si sa quanto certe pratiche attendano in coda prima di arrivare nelle mani di chi le dovrà esaminare, ma ciascuno di questi giudici istituzionali (Regione, Ministero, Ue) può richiedere spiegazioni, approfondimenti e fare osservazioni che dilatano enormemente i tempi di approvazione.
Tuttavia non finisce tutto con il via libera da parte di Bruxelles, un altro fitto scambio di carte dal consorzio al Ministero delle Politiche agricole è necessario per designare l’organismo certificatore competente a eseguire i controlli, che non può essere, per ovvie ragioni, lo stesso consorzio di produttori.
Stimare 5-6 anni è persino ottimistico.
Per molti anni, quindi, questi volenterosi produttori devono spendere soldi, energie e tempo e attendere che qualche ufficio lontano si occupi di verificare che i bolli e gli oboli vari siano stati interamente versati e che le miriadi di moduli e scartoffie siano compilati correttamente, a prova di azzeccagarbugli.
Sono assolutamente convinto, da consumatore, che un prodotto Dop o Igp debba offrire la certezza, oltre ogni ragionevole dubbio, della sua origine. Controlli, verifiche documentali, analitiche e visive sono indispensabili, come pure una seria ricerca di base per comprendere e approfondire il legame tra territorio e prodotto, spendibile poi per operazioni di marketing.
Sono però altrettanto sicuro che non sono così strettamente indispensabili tre gradi di giudizio per arrivare all’attribuzione di una Dop o Igp. Non si tratta di un premio riconosciuto dalle istituzioni per la pazienza e perseveranza dimostrata da alcuni produttori, ma molto più semplicemente di una legittima richiesta per la salvaguardia di profumi, sapori e tradizioni. In una denominazione d’origine le aziende agricole e agroalimentari intravedono la possibilità di differenziare e segmentare la propria produzione, potendo così spuntare prezzi un po’ più alti sul mercato e sopravvivere dignitosamente, magari senza i tanti aiuti e sostegni di stato o comunitari.
Questa intraprendenza e volontà di crescita, di innovazione merita davvero una condanna a qualche anno di pene, sofferenze e tribolazioni?

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