La voce dell'agronomo 22/11/2003

FARE AGRICOLTURA NON È UN HOBBY

A fronte delle migliaia di aziende che vivono e investono in agricoltura ci sono più di un milione di piccoli produttori part-time che percepiscono aiuti pubblici. Si tratta di una dispersione di fondi che nuoce all’intero comparto


Sebbene taluni considerino uno spreco di soldi le indagini e gli studi economici sul comparto agricolo, io credo che siano invece utilissimi perché forniscono un quadro del settore che poi risulta indispensabile per compiere scelte e valutare le proposte che hanno una ricaduta anche sul territorio, l’ambiente e il tessuto sociale di tante realtà locali. Per questo plaudo al lavoro svolto dall’INEA che il 5 novembre ha presentato il primo Rapporto sullo stato dell’agricoltura. Tale lavoro, che prende in esame naturalmente anche i dati dell’ultimo Censimento, offre molti spunti di riflessione sul ruolo, le potenzialità, i limiti del comparto primario.

Se è vero che all’agricoltura si chiede sempre di più (qualità, sicurezza alimentare, tipicità e salvaguardia dell’ambiente), è anche vero la società civile è estranea alla società rurale, non ne percepisce problemi e difficoltà, poiché raramente e solo attraverso azioni clamorose l’agricoltura è stata in grado di farsi ascoltare. Tale distacco si avverte maggiormente quando si parla di cifre, ovvero dei soldi (17.215 milioni di euro) che Unione europea, Stato e Regioni destinano a sostegno del settore primario. In apparenza possono risultare somme enormi, ma, come giustamente osserva il Rapporto, una larga parte di questi fondi non è destinata al settore produttivo ma ad interventi che hanno una ricaduta sul piano sociale ed ambientale. Se poi valutiamo il numero delle aziende (circa 2,6 milioni) e consideriamo che, fino a questo momento, gli aiuti sono stati dati a pioggia, comprendiamo come tutti i problemi del comparto produttivo siano rimasti solo in sospeso, senza neanche tentare di risolverne qualcuno.

Una delle più importanti questioni irrisolte dell’agricoltura italiana è sicuramente l’estrema frammentazione aziendale, ma meglio sarebbe definirla polverizzazione. Già perché quasi la metà delle aziende agricole (1 milione e 160 mila) hanno una superficie agricola utilizzabile sotto l’ettaro.
Se alcune di queste sono aziende altamente specializzate: floricole, vivaistiche od orticole in serra, è chiaro che la maggior parte sono appezzamenti di terreno condotti a livello hobbistico, di passatempo. Questi orti hanno lo scopo di soddisfare le necessità della famiglia e degli amici del proprietario del fondo, non certo di creare reddito o di fare impresa.
Eppure anche queste “non-aziende”, come giustamente sono definite dal Rapporto, ricevono contributi. Mi pare almeno incoerente che si diano soldi pubblici a chi, per svago e piacere, coltiva il suo orticello e non a chi va a pescare, fa sport o colleziona francobolli. E non regge neanche la motivazione, spesso sostenuta dai fautori della piccolissima proprietà contadina, di far opera meritoria tenendo puliti fossi, argini e campi, infatti, di solito, questi appassionati sono anche i maggiori consumatori di presidi fitosanitari, veleni che spargono su colture e terreni senza nessuna misura o conoscenza in materia, usando prodotti ad ampio spettro senza criterio e abbondando nelle dosi pur di ottenere frutta ed ortaggi belli e sanissimi, se questa è tutela ambientale…

Se aiutare gli hobbisti mi pare eccessivo, non vorrei che si esasperasse su questa strada. Mi pare infatti pericoloso considerare meritevole di essere destinatario della politica comunitaria solo il latifondo, la proprietà di decine o centinaia di ettari. Esistono 340 mila aziende con una superficie tra i 5 e i 20 ettari che compongono l’ossatura del settore agricolo produttivo, sono piccole imprese, generatrici di reddito, con strategie organizzative, condotte con l’ausilio spesso di salariati, con capacità e volontà di investimento. Queste tengono e terranno alto il vessillo della gastronomia italiana nel mondo, salvaguardando tradizioni e prodotti altrimenti destinati a scomparire nel calderone globale, permettendo all’Italia di puntare alla leadership nel campo della qualità e tipicità delle produzioni agroalimentari.

di Alberto Grimelli