La voce dell'agronomo 11/02/2006

INNO ALLA LIBERA CIRCOLAZIONE DI UOMINI, MERCI E SERVIZI

Abbiamo fatto l’Europa, ora bisogna fare gli europei. I tentativi di armonizzazione si scontrano spesso con culture e tradizioni radicate e consolidate, difficili da smantellare, in particolare quando la tendenza è un livellamento verso il basso


Un giorno, chissà quanto lontano, ci sveglieremo europei.
Non sarà avvenuto dalla sera alla mattina.
Sarà invece frutto di un duro lavoro di armonizzazione delle normative nazionali, ma soprattutto grazie alla libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi.
Impareremo così a conoscerci, ad apprezzare o quantomeno rispettare le rispettive differenze.
Non saremo mai uguali, ma saremo europei ancor prima che italiani, tedeschi o polacchi.
L’Unione europea, in questi anni, si sta attivamente adoperando per favorire questi flussi. La moneta unica ha anche questo scopo. L’abolizione dei dazi e delle dogane intracomunitarie è stato un passaggio decisivo, Schengen è un ulteriore avanzamento.
Ultimamente stiamo assistendo a una decisa accelerazione.
La direttiva Ce 36/2005 (detta Zappalà), sulle professioni, ne è fulgido esempio. Stabilisce che un professionista possa esercitare in uno qualunque degli Stati membri purchè disponga di qualificazione culturale (non necessariamente titolo di studio), livello di formazione (tirocinio o praticantato) e di formazione continua. Secondo questa direttiva, già recepita dall’Italia, è il singolo Stato a stabilire i livelli minimi di accesso alla professione, così come i requisiti deontologici e l’Ente o gli Enti delegati al controllo (Ordini, Collegi, Associazioni).
Potrà quindi accadere che un professionista, istruitosi e qualificatosi in un Paese con standard minimi, possa andare ad esercitare in altro Paese che stabilisce livelli più elevati e rigorosi di qualificazione culturale, di esperienza e formazione continua.
Si tratta di un chiaro esempio di come, a livello comunitario, vi sia una perniciosa tendenza al livellamento verso il basso, a stabilire, quali requisiti minimi, quelli del Paese con i più bassi standard.
Accettare, acriticamente, soltanto perché viene dall’Europa, tale nefasto trend è insano. Tanto più se ci si scontra con tradizioni e culture ormai ben consolidate.
L’istituzione e la regolamentazione delle professioni intellettuali in Italia risale agli anni 1930, con una visione di queste legata all’ingegno individuale, a una preparazione scolastica definita e a precise norme di condotta morale ed etica, riconoscendone quindi implicitamente la funzione sociale. Diverso è il caso dei Paesi anglossassoni, tradizionalmente liberisti, che non attribuiscono alcuna valenza particolare al professionista se non quella di prestatore di servizi.
Livellare verso il basso, nel caso delle professioni intellettuali, significa implicitamente favorire una visione imprenditoriale del professionista, cancellando, con una semplice direttiva, i fondamenti delle professioni intellettuali, così come nate in Italia o in altri Paesi.
Ben venga la libera circolazione degli uomini, delle merci e dei servizi, purchè, a questo fine, non vengano immolate le differenze culturali e sociali caratteristiche di ogni singola Nazione.

di Alberto Grimelli