La voce dell'agronomo

ANCHE SE PRODOTTO IN CINA RESTA MADE IN ITALY. SCONCERTANTE DECISIONE DELLA CASSAZIONE

Per la Suprema Corte è importante non il luogo di produzione ma l'identificazione del produttore. Quindi un’impresa che apponga la dicitura “Italia” e il tricolore su un manufatto realizzato in qualsiasi altro Paese non commette alcun illecito. Distrutto il lavoro di anni

30 aprile 2005 | Alberto Grimelli

Le aziende italiane possono delocalizzare la produzione in Cina e altri Paesi applicando poi la dicitura “Italy” e il tricolore.
Per la Cassazione, ciò non viola la normativa della Finanziaria 2004 a tutela del “Made in Italy” perchè ciò che rileva non è il luogo di produzione del manufatto ma l'identificazione del produttore e la riconducibilità del prodotto all'azienda.
La decisione arriva in seguito al sequestro, da parte della polizia alla dogana di Napoli, di un lotto di tute, magliette e pantaloncini marcati “Italy” ma prodotti in Cina da un'impresa italiana, che secondo la polizia avrebbe così violato la normativa a tutela del prodotto nazionale.

La pronuncia della Cassazione (n. 3352/2005) ha fatto parlare di allentamento dei vincoli soprattutto per quanto riguarda la tutela dell'origine, concetto per la Suprema corte più ampio di quello di semplice provenienza che pure era stato tutelato penalmente dopo l'approvazione della Finanziaria 2004.

Vi sono poi le perplessità, espresse anche dall’Agenzia delle dogane, sul fatto che le norme puniscono anche “la fallace indicazione” di origine consistente in segni, simboli, figure che possano indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. La norma è poco chiara perché c’è una grande varietà di situazioni concrete che comportano una analisi interpretativa dell’intenzione di spacciare per italiano un prodotto che non lo è.

Vero è che il legislatore non è perfetto, nè lo sono le leggi. Sono assolutamente migliorabili e perfezionabili.
Esatto che le norme lasciano ampi margini interpretativi, che speculatori e falsificatori hanno molte possibilità di aggirare i paletti e i vincoli posti dai regolamenti.
Uno dei compiti più rilevanti delle Autorità di controllo, come pure della magistratura, è proprio interpretare la volontà del parlamento, che, almeno in questo caso, è estremamente chiara.
Con la Finanziaria 2004 si intendeva proteggere, con un marchio di qualità, la produzione nazionale, che gode di prestigio su tutti i mercati internazionali per la cura e l’attenzione con cui è realizzata. L’Italia non è solo design, innovazione, creatività. È anche fabbriche e laboratori. Vi sono migliaia di operai, il cui lavoro va salvaguardato.
Ormai ho rinunciato da tempo a cercare di comprendere i percorsi mentali e i pensieri dell’autorità giudicante. Ciò che posso affermare è che la Cassazione ha interpretato fin troppo fiscalmente ed in maniera pignola la legge sul “Made in Italy”.

Ora, per disinnescare la portata potenzialmente eversiva della sentenza, il decreto sulla competitività dovrà intervenire per chiarire che la portata della tutela penale del “Made in Italy” deve essere allargata sino a tenere conto sia del luogo di produzione dei prodotti (concetto di origine), sia del produttore (concetto di provenienza).

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