La voce dei lettori
Giovani e lavoro, un'anomalia tutta italiana
La prassi? Si entra in base al cognome, alle amicizie, alla prossimità con chi conta. Per cooptazione. La struttura verticale e gerontocratica non aiuta, ma una soluzione ci sarebbe
27 settembre 2008 | T N
E' davanti agli occhi di tutti noi la consapevolezza delle difficoltà crescenti che i giovani incontrano sul mercato del lavoro in Italia, in particolare se intendono affrontare attività qualificate. Ancor più, se sperano di fare carriera, di imporsi, fino a occupare ruoli dirigenziali. Il nostro sistema, infatti, è chiuso e scoraggia la concorrenza, non solo sul mercato, ma anche nell'occupazione.
Soprattutto per quel riguarda le professioni più ambite, che garantiscono maggior prestigio. Per cui i giovani si vedono condannati alla sindrome di Peter Pan (non crescere mai). Oppure alla sindrome del principe Carlo (in attesa di una successione che non arriva mai). Ciò avviene sia nel settore pubblico che in quello privato.
I posti di comando, le posizioni dirigenziali sono saldamente occupate da persone anziane. Mentre l'accesso a queste professioni è largamente condizionato da logiche di casta e di famiglia. Così, si entra in base al cognome, alle amicizie, alla prossimità con chi conta. Per cooptazione. Un processo governato dall'alto. Sic res stantibus, uscire dall'Italia, per i giovani diventa necessario.
Semmai, il problema è che le ricerche sugli studenti universitari europei che hanno svolto l'esperienza dell'Erasmus (trascorrendo, cioè, periodi di studio in
università di altri paesi della Ue), mostrano come gli italiani siano ancora fin troppo pigri e resistenti, sotto questo profilo. I giovani europei, infatti, considerano normale la prospettiva di lavorare e vivere fuori dal paese d'origine. Delineano, cioè, un percorso biografico e professionale aperto. Nel quale, se necessario, sia possibile lavorare e risiedere in un altro paese europeo, diverso e lontano da quello in cui sono nati e cresciuti.
In Italia emerge, invece, un orientamento diverso. Trasferirsi all'estero per motivi di studio e lavoro è considerato utile e, anzi, necessario da un numero
crescente di giovani, ma solo per un periodo delimitato. Il richiamo della famiglia, il legame con il territorio resta forte. Il che, ovviamente, è un valore. Ma anche un limite, perché condiziona i percorsi di vita e la carriera professionale dei giovani; e perché asseconda i vizi del nostro mercato del lavoro e del nostro sistema economico e professionale: rigido e chiuso. Perché, infine, accentua la struttura verticale e gerontocratica del nostro Paese. Dove i figli non crescono, perché controllati da genitori che vogliono restare per sempre giovani e da anziani che, coerentemente, non accettano di invecchiare.
Se gran parte dei giovani ritengono necessario andarsene dall'Italia, per inseguire un lavoro più adeguato alle loro competenze e alle loro aspettative, allora, meglio lasciarli andare. Torneranno, insieme ad altri giovani di altri Paesi, quando il nostro paese sarà più accogliente e aperto. Quando i legami familiari e personali conteranno meno della competenza, per fare carriera nel sistema pubblico e privato. Quando i ventenni saranno considerati una risorsa sociale su cui investire e non una specie rara, da proteggere e controllare.
Mario Pulimanti
Lido di Ostia -Roma
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