La voce dei lettori

Prima il mercato, poi la ricerca

Un'accorata lettera di Giorgio Pannelli che, ripercorrendo la storia della tecnica olivicola nazionale, invoca maggiore sobriertà nell'indicazione di vie miracolose per l'olivicoltura italiana che non possono esistere senza prima confrontarsi con il mercato. E allora? Al via la rottamazione

04 dicembre 2010 | T N

Egregio Direttore,

nel merito delle conclusioni cui sono pervenuti gli illustri relatori partecipanti alla giornata di studio sull’intensificazione in olivicoltura (Sassari, 12 novembre u.s.), così come riferito da A. Grimelli nel n. 42/10 di TN, rilevo la mancanza di una strategia commerciale preliminare al sostegno espresso sulla validità degli indirizzi di coltivazione sia tradizionale che superintensiva dell’olivo. Ritengo, infatti, a rischio di convenienza economica la produzione di olio a prescindere dalle condizioni di mercato.

Il mercato può essere subito, oppure si può tentare di condizionarlo. In Italia si produce poco più della metà dell’olio che si consuma, eppure il prezzo all’ingrosso del prodotto si colloca a livelli di molto inferiori ai costi di produzione, a dimostrazione che la produzione olivicola nazionale “subisce” il prezzo dell’olio. Si potrebbe allora tentare di condizionare il mercato nazionale puntando sul suddetto divario tra domanda ed offerta interna e sul livello di consapevolezza alimentare del consumatore nazionale che, per quantitativi e tipologia di olio consumato, può considerarsi il migliore al mondo.

Si dovrebbe portare a conclusione il percorso virtuoso avviato contestualmente dalla classe medica e dai grandi mezzi di comunicazione a partire dalla seconda metà del secolo scorso, quando i consumi di grassi alimentari sono gradualmente evoluti prima verso quelli di origine vegetale (semi), poi verso l’olio di sansa o di oliva (nella sua denominazione commerciale), poi verso l’extravergine che, attualmente, rappresenta più dell’80% dei consumi di olio estratto dalle olive.

Senza una definitiva elevazione della cultura alimentare del consumatore (quello nazionale basta ed avanza!!) verso tipologie di olio extravergine con sensazioni olfattive e gustative, quindi con acclarate virtù nutrizionali, salutistiche e sensoriali, non si intravede futuro per l’olivicoltura nazionale.

Insistere pedissequamente nella richiesta di “forti interventi a sostegno e tutela dell’olivicoltura esistente” o “di interventi pubblici e privati per sostenere lo sviluppo di un ampio programma sperimentale e dimostrativo con l’impianto di una serie di oliveti superintensivi” senza una preliminare strategia di mercato, significa perseverare nella strada che ha portato l’olivicoltura nazionale all’attuale disperata situazione economica.

Mi hanno insegnato che chi conosce la storia evita di commettere gli errori delle generazioni precedenti. Ritengo che gli errori siano iniziati subito dopo la gelata del 1956 quando, sull’onda dei danni inferti agli oliveti del centro Italia, del massiccio spopolamento delle campagne, del desiderio di meccanizzazione delle colture, iniziarono le proposte “miracolose” di intensificazione colturale dell’olivo basate sull’incremento della densità di piantagione e sull’adozione di nuove forme di allevamento. Si iniziò quindi con la palmetta (Breviglieri, 1958) ed il vaso cespugliato (Morettini, 1961), proseguendo poi con l’ipsilon (Braconi, 1964), il siepone (Vitagliano, 1968), il monocono (Fontanazza, 1982), fino al recente asse centrale (Godini, 2002).

Tutte le esperienze, dopo i facili entusiasmi iniziali, sono fallite con una rapidità proporzionale alla densità di piantagione, a dimostrazione che il problema non è tanto nella forma di allevamento quanto nel modello che implica una precoce competizione tra piante per la conquista di spazio e luce.

A mio avviso, il progresso nella gestione della chioma degli olivi è tuttora fermo al 1955 quando, a conclusione di esperienze trentennali di un nutrito gruppo di ricercatori e tecnici operanti in Toscana ed Umbria, fu pubblicato un opuscolo significativamente titolato “La produzione dell’olivo può essere raddoppiata”(Nizzi Grifi, 1955), per illustrare semplici, rapidi ed efficaci interventi di potatura su olivo allevato a vaso policonico.

Con l’avvento delle proposte “miracolose”, ma anche con la contestuale riforma delle Istituzioni nazionali e locali delegate alla formazione degli operatori, si interruppe il circuito virtuoso che aveva condotto ai risultati condensati nel suddetto titolo ed ora, anche in Toscana ed Umbria si assiste al ritorno della vituperata “acefalia” dell’olivo, mentre nelle restanti Regioni olivicole gli alberi vengono solo periodicamente riformati, oppure si persevera con una potatura secondo i principi del vaso dicotomico, proposto da Caruso (1883) quando le condizioni sociali, culturali ed economiche del settore erano opposte alle attuali.

Mi sarei aspettato, da cotanto consesso, leggere conclusioni inneggianti a forti interventi a sostegno di formazione e divulgazione nel miglioramento della tecnica colturale nell’oliveto, nella potatura agevolata e semplificata, nella elevazione e diversificazione su base genetica e territoriale della qualità dell’olio, nell’incremento della cultura alimentare del consumatore nazionale, ben oltre quella penosa campagna promozionale cui abbiamo assistito per l’olio made in Italy.

Livelli produttivi ed economici paragonabili a quelli ipotizzati per l’olivicoltura superintensiva possono essere realizzati in ogni ambiente, semplicemente intensificando la tecnica colturale in condizioni di olivicoltura tradizionale. Così facendo si potrebbe aggiornare il titolo dell’opuscolo di cui sopra in “La produzione dell’olivo può essere raddoppiata ed i costi di dimezzati” mentre, con opportuni interventi a sostegno, il mercato nazionale potrebbe evolvere verso condizioni di reciproca soddisfazione per produttori e consumatori di olio di qualità superiore e diversa.

Se poi si desidera perseguire una strategia produttiva basata sul confronto nel marcato internazionale del generico extravergine, che almeno si richiedano interventi pubblici e privati a sostegno del miglioramento genetico finalizzato all’ampliamento dell’attuale, misera disponibilità varietale, prima che per l’impianto di oliveti superintensivi “in tutte le regioni interessate e localizzati ovunque vi siano condizioni idonee a questa innovazione”.

Ricordo, comunque, che la validità economica del modello di coltivazione superintensivo resta ancora tutta da dimostrare e che per ragioni strutturali, sociali, economiche e politiche, la produzione a basso costo di olio genericamente extravergine è ormai prerogativa dei principali Paesi concorrenti. L’eccellenza e la diversità qualitativa, invece, per ragioni ambientali, strutturali, culturali, ecc. restano ancora nelle nostre quasi esclusive possibilità.

L’economia olivicola nazionale è prossima al collasso mentre qualità dei consumi e prezzi dell’olio regrediscono rapidamente, per cui si riducono progressivamente le prospettive di sviluppo del settore. Necessitano urgenti decisioni strategiche a livello sia politico che tecnico ma, come traspare dalle conclusioni di cui sopra, al capezzale della moribonda olivicoltura nazionale si aggirano sempre e solo gli stessi soggetti all’origine del male.

Concludo con la stessa frase utilizzata in una precedente lettera al Direttore (TN, 27/10): “Se questo è il futuro del comparto olivicolo nazionale c’è poco da rallegrarsi per occasionali vittorie di Pirro di chiunque lungo l’intera filiera: siamo tutti sulla stessa barca (dai produttori ai confezionatori) e tutti destinati al naufragio!”. Aggiungo solo una battuta: che sia giunta l’ora della rottamazione anche ai vertici dell’olivicoltura nazionale??

Con saluti,

Giorgio Pannelli
CRA-OLI, sede distaccata di Spoleto

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