Editoriali

Bio sotto attacco. Cui prodest?

07 giugno 2008 | Roberto Pinton

Nel marzo del 2003, allo scopo dichiarato di far chiarezza sull’agricoltura biologica la trasmissione “Radio anch’io” non trovò di meglio che invitare Giorgio Poli (che Novartis, prima di passare il suo business a Syngenta, presentava come suo “esperto in biotech”).
Certamente per distrazione, il nostro non premetteva il suo arruolamento nelle squadre d’assalto Ogm, ma illustrava comunque ai radioascoltatori le caratteristiche dell’agricoltura biologica, ossia l’utilizzo della fossa biologica (donde la denominazione), al punto che, a suo dire, i Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell’arma dei carabinieri avrebbero scoperto in continuazione cariche batteriche elevatissime sui prodotti alimentari etichettati come biologici.
Sempre allo scopo di far chiarezza, dichiarava la sua certezza dell’assoluta impossibilità di coltivare alcunché senza ricorrere a sostanze chimiche di sintesi, tant’è che, non potendo farlo alla luce del sole, gli agricoltori biologici avrebbero acquistato “in nero” diserbanti e fitofarmaci, in ciò agevolati dal fatto che mancava il minimo controllo. Anzi, no: nelle loro analisi i Nas avrebbero scoperto residui di sostanze non ammesse in una quota di prodotti compresa tra il 30 e il 40%.

La redazione fu immediatamente subissata da centinaia di telefonate, fax e messaggi E-mail di protesta, al punto che il giorno successivo si trovò costretta a comunicare la programmazione di una puntata riparatrice, con la presenza dei rappresentanti dell’associazionismo biologico e una certa quantità di cenere a cospargere il capo del conduttore Stefano Mensurati.

Cinque anni dopo, alla fine del mese scorso, Il Giornale titola “I cibi biologici? Sono un pericolo” un intervento in cui Franco Battaglia, docente di chimica a Modena, torna a informare sulla ricchezza di dannosi batteri nel concime animale e della tossicità di alimenti coltivati senza “fitofarmaci appropriati” (le piante, informa, sono costrette a produrre da sé le difese naturali, ben più nocive dei formulati di sintesi: basti pensare alla produzione di cianuro con funzione rodenticida da parte della solo apparentemente innocua mandorla).
Per non tenersi sul vago e concludere con qualche cifra, sottolinea che i consumatori di prodotti biologici (è stato accertato, sostiene. Non dice da chi, ma ci fidiamo) sono più esposti agli attacchi della salmonella, e fino a 8 volte di più (otto, non una di meno) a quelli di un pericoloso e non meglio specificato ceppo di Escherichia coli.

Sarà perché non riescono a inquadrare esattamente l’autore, di cui ricordano interventi come “Il racket ecologico degli ambientalisti” (2003), “L'ambiente inquinato dagli ambientalisti” (2005), “Il risparmio energetico? una boiata” (2008), e il leggendario “Ecco perché l’effetto serra è solo una grossa bufala” (2000), per il quale la pur mite Società Meteorologica Subalpina lo bacchettò con il lapidario “Questa non è né scienza, né onesta divulgazione scientifica”.
È uno scienziato preso da ansia divulgativa? Un piccante polemista? Un comico mordace?
Nel dubbio, gli operatori biologici, impegnati fino al collo nelle loro aziende (alle quali, grazie al cielo, il lavoro non manca), l’han lasciato perdere, limitandosi a bofonchiare.

Qualche giorno dopo è il Corriere della Sera a ospitare a piena pagina il pezzo “Il bio? Fa danni. I nuovi dogmi verdi”.
La notizia che ha ispirato l’articolo è la scelta del magazine Wired di sparare in copertina un definitivo “Ambientalisti, attenti: tenetevi i Suv, dimenticate i prodotti biologici, convertitevi al nucleare, tirate il collo al gufo maculato”.
Wired, che il Corriere definisce “rivista di varia umanità”, è in realtà un magazine centrato sull’information technology e sulle nuove tecnologie in genere, pubblicato da Condé Nast, editore di Vogue, Glamour, Elegant Bride, Golf for Women e altre testate fru-fru.

Sfugge il senso del ragionamento che estende a tutto il residuo scibile umano, ecologia e agricoltura comprese, l’autorevolezza che a Wired è riconosciuta su internet e sulla cultura legata alla rivoluzione tecnologica.
Senza alcun commento che non sia una citazione dal blog di Wired (tra cui il tranchant “Non c’è più raziocinio in quest’articolo che nell’orecchio destro di Laura Bush”), il Corriere ha ritenuto meritevole di una propria pagina il cazzeggio sull’ambiente di un redattore di una rivista specialista di internet.
Grazie a questa scelta giornalistica, 600.000 acquirenti e un numero imprecisato di lettori ora conoscono le nuove regole dell’ambientalismo come definite da Wired.
Le foreste vergini? Contribuiscono al riscaldamento globale, meglio disboscarle e installarvi aziende agricole biotech.
Un’auto ibrida a basse emissioni? No, meglio correre in un suv usato.
Cercare di salvare le paludi subtropicali delle Everglades o la tartaruga gialla dell’Illinois? È del tutto inutile: il cambiamento climatico sta spingendo il pianeta verso il caos.
E l’agricoltura biologica?
Fa più danni di quella convenzionale. È evidente: ci vogliono più vacche per produrre lo stesso litro di latte, e più vacche emettono più metano.

Un breve commento a tale tregenda è stato chiesto a Carlo Petrini (“Ma che belinata è questa?”).
Stavolta “i biologici” si sono sentiti toccati, non fosse altro perché il Corriere della Sera vende il triplo de Il Giornale e, potenzialmente, fa il triplo di danni.
Non fosse altro perché, quando si trattano temi di natura tecnica che interessano “settori economici anche relativamente importanti per l’economia nazionale, oltre che scelte impattanti per la salute dei cittadini”, come hanno scritto, oltre che mantenere un atteggiamento non superficiale, sembrerebbe loro logico interpellare gli operatori di quei settori, non Carlo Petrini, apprezzato, ma mai delegato a tal compito.
Le loro lettere al direttore, però, non sono state pubblicate.

I lettori del Corriere non sanno così, che lo studio della Cornell University pubblicato su Bioscience nel 2005, dopo 22 anni di raccolta dati, comparando costi e vantaggi ambientali, energetici ed economici delle coltivazioni biologiche e convenzionali di mais e soia, conclude che, oltre che ridurre l’inquinamento delle acque di falda a livello locale e regionale grazie al non utilizzo di sostanze chimiche di sintesi, la coltivazione biologica consuma meno acqua e il 30% in meno d'energia fossile.
Non sanno che, secondo i ricercatori, le pratiche agricole biologiche comportano meno erosione e preservano la qualità del suolo, che negli anni siccitosi dal 1988 al 1998 il raccolto di mais biologico è stato del 22% superiore a quello delle aziende convenzionali, che il loro livello di azoto è aumentato dall’8 al 15%.
Non sanno nemmeno che la ricerca del British Trust for Ornithology, del Centre for Ecology & Hydrology di Lancaster e dell'Università di Oxford pubblicata lo stesso anno su Biology Letters, rileva nelle aziende biologiche un maggior tasso di biodiversità, in un range compreso tra il +68 e il +153%, né che "aumentare la superficie coltivata con metodo biologico può contribuire a ristabilire la biodiversità nei paesaggi agricoli".

Ignorano anche che l’indagine sui costi sociali dell'agricoltura condotta nel 2002 dalla Sda dell’Università Bocconi ha calcolato che per bonificare e mettere in sicurezza le acque di falda di tre regioni settentrionali da fitofarmaci e fertilizzanti chimici servirebbe una spesa tra gli 88 e i 119 milioni di euro (nel caso del biologico, il costo sociale sarebbe contenuto in 3 milioni).
Né sanno che Francesco Bertolini, professore di Istituzioni e governo dell'ambiente ha conseguentemente rilevato che l’agricoltura biologica rappresenta «una logica e una filosofia nei confronti della terra che andrebbe comunque e sempre sostenuta se vogliamo ancora avere speranza in un futuro che si preannuncia drammatico dal punto di vista ambientale».

Sono stati (dis)informati, i lettori del Corriere, soltanto che “Il bio fa danni”, come ha deciso un esperto di information technology in vena di paradossi per una copertina d’effetto.
Se la tuttologia a sproposito non è riservata a soubrette (salotti televisivi docent) ed esperti di information technology, ora attendiamo che il Corriere interpelli Luigi Caricato, direttore di Teatro Naturale, ma van bene anche Elia Zamboni e Beatrice Tosi, direttore e vice-direttore Edagricole, per acquisire e immediatamente diffondere la loro personale opinione su MySpace e sulle altre forme di social networking via web.
Oppure sul concetto di apeiron in Anassimandro o sull’arte vasaia precolombiana, perché porsi limiti?

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