Editoriali

Il "nero" o la fine dell'attività

16 febbraio 2008 | Stefano Tesi

Ho letto con interesse l’intervista di Antonella Casilli al dottor Romano in materia di lavoro nero (link esterno) e mi sono tornate in mente le considerazioni fatte lo scorso anno in materia di specifico agricolo (link esterno).

E’ indubbio che il cosiddetto “lavoro nero” – ma è a questo punto da chiarire cosa si intenda esattamente con l’espressione: il lavoro in totale evasione delle norme o anche quello in parziale evasione, detto “grigio”? E in tal caso, fino a che misura? – si sviluppa in agricoltura su tre fasce.

La prima, quella “alta”, occupa il “nero” volontario, fatto con perfetto e consapevole studio, allo scopo di aggirare le leggi vigenti in materia, che va ovviamente sanzionato.

La terza, la “bassa”, riguarda invece quell’insieme di ignoranza, menefreghismo, carenza culturale che talvolta spinge a considerare come inesistenti le norme (su lavoro e non) e quindi la necessità, sia morale che materiale, di adempiervi. E’ un caso più sociale che giuslavoristico e richiede soluzioni progressive, di lungo periodo.

Vi è poi la vasta fascia intermedia, quella che personalmente considero la più articolata e al tempo stesso la più sfuggente. E per giudicare la quale occorra spezzare il riflesso condizionato, implicito ormai quando si parla di lavoro, che tende sempre ad opporre un soggetto forte e cattivo, il “padrone”, a un altro debole e vittima per definizione, il lavoratore.
Perché, come l’esperienza facilmente dimostra, in questa fascia intermedia di “nero” il rapporto si instaura in realtà tra parti ambedue deboli che concordemente scelgono quella via. La quale, più che di una deliberata volontà di violare la legge, è quindi il frutto di un accordo tra le parti stesse, indirizzato a rendere possibile ed economicamente sostenibile un costo (e quindi un lavoro) che altrimenti non potrebbe essere sostenuto. Lasciando così l’azienda nell’impossibilità materiale di funzionare e il lavoratore in quella di lavorare.

L’esempio dell’olivicoltura è illuminante, ma potrebbe essere facilmente allargato a molti altri settori dell’agricoltura tradizionale e marginale.
L’olivicoltura è in crisi e i margini, lo sanno tutti, sono minimi. La sua prima necessità è contenere i costi e sopravvivere. L’alternativa, chiudere. O non raccogliere il prodotto.

Per l’azienda, assumere gli operai obbedendo alle complesse norme sul lavoro significa spesso, però, accollarsi un costo e un onere burocratico non sopportabili, con l’unico effetto di dover ridurre o azzerare il volume della manodopera assunta.

Il lavoratore, da parte sua, sa viceversa benissimo che lavorando al nero (e cioè sgravando il datore di lavoro dei costi contributivi ma scaricando anche sull’azienda tutti i rischi derivanti dalle ispezioni e dalle sanzioni) può intascare di più e con maggior elasticità e facilità di quanto intascherebbe lavorando in “chiaro”. Perché dunque dovrebbe pretendere di essere assunto? Non solo: ma lavorando in nero anche il guadagno sarà “in nero” e quindi sottratto al rischio di tasse, cumuli, incompatibilità, pensioni, etc. Sarà anche, in molti casi, uno straordinario che andrà a sommarsi, senza imposte, allo stipendio già percepito con la prima occupazione.

Da qui quello che, da parte degli ispettori del lavoro è forse, tecnicamente, un pactum sceleris, ma che visto con gli occhi delle parti in causa è il naturale punto di composizione e convergenza dei rispettivi interessi: tutti e due hanno da guadagnare e non hanno alternative. L’azienda senza manodopera non lavora, l’operaio senza lavoro non guadagna.
Ciò, lo sanno tutti, è un evento quotidiano in agricoltura.
Con il paradosso che, a volte, i ruoli addirittura si invertono ed è l’operaio che diventa “padrone”, tenendo in scacco l’azienda e “costringendola” a lavorare in nero: è lui, cioè, che per le ragioni dette sopra ha convenienza a lavorare il nero (ad esempio per non perdere le apparenze della stagionalità e continuare a percepire i sussidi) e “pretende” di ottenerlo. Ed essendo in difficoltà e senza margini di trattativa, spesso l’azienda è costretta ad accettare.

Onestamente credo che finchè non si accetterà che questa logica, questo sistema e questa situazione esistono, che fanno parte di una precisa casistica e tipologia e che sono dettate da uno stato di fatto reale, per nulla speculativo ma frutto di condizioni di composita necessità, non si avrà mai una visione chiara e globale del problema e sarà quindi difficile anche trovare soluzioni eque e soddisfacenti.

Trovo quindi che gli strepiti a senso unico, in base ai quali pare che il lavoro nero sia una piaga dettata solo da avidità e incuria, siano fuori luogo e stornino l’attenzione dalle questioni vere.
Il sistema produttivo, e soprattutto le sue componenti in difficoltà, come l‘agricoltura, è sovraccarico di costi e adempimenti che, sotto il profilo strettamente razionale, suggerirebbero di “chiudere bottega”. Con i costi sociali ed economici, però, che ne seguirebbero. Se non si trova il modo di rendere conveniente o almeno sopportabile per tutti l’emersione del lavoro nero, continueremo sempre, e non ci saranno minacce e sanzioni che tengano, ad avere morti bianche e situazioni di irregolarità insanabili.

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