Editoriali
Il bluff dell'arte del blend
23 gennaio 2015 | Alberto Grimelli
Dopo mesi in cui gli imbottigliatori e i loro accoliti si sono affannati a spiegare che l'olio artigiano non esiste, ecco il cambio di strategia.
Se non puoi batterli, unisciti a loro... dice il proverbio.
Così, dopo aver negato l'esistenza dell'olio artigiano, ecco che industriali e imbottigliatori si stanno affannando, da qualche settimana, a spiegare che, in fondo in fondo, anche loro sono artigiani.
Tutto merito di un'espressione di nuovo conio, una miscela di parole: “arte del blend”.
La dizione, debbo ammetterlo, ha un certo fascino.
Richiama l'arte, la cultura e l'artigianalità, ovvero le assi portanti dell'Italia, unendola a un termine inglese che sa di innovazione, scienza e futuro.
Vuole dare l'impressione e l'illusione che, dietro alla bottiglia che compriamo a 2,99 euro/litro al supermercato, vi sia una mitologica figura alle prese con provette e alambicchi.
L'espressione è efficace. Complimenti a chi l'ha creata.
Peccato che, grattando appena la superficie, si scopre che si tratta di un bluff bello e buono.
Non c'è infatti niente di meno artistico del blend elaborato da imbottigliatori e industria olearia.
Non c'è genio, creatività o estro, ma c'è uno studio a tavolino, operato da un gruppo, team se vogliamo usare l'espressione inglese.
Si tratta di professionisti preparati e qualificati. Rispetto loro e il loro lavoro, che, però, è molto diverso dall'arte.
Si parte dall'ufficio marketing che studia gusti e sapori, insomma i desiderata dei consumatori, creando un profilo di olio che piace e associandogli, in base a precise indagini di mercato, un prezzo.
Ne esce un blend teorico e precise indicazioni commerciali per l'ufficio acquisti, che dovrà andare a cercare oli, nel bacino del Mediterraneo e oltre, che rispondano ai requisiti fissati dall'ufficio marketing.
Una volta operata questa prima scrematura, gli oli passano all'ufficio qualità. In questa sezione, composta di chimici e assaggiatori, si verifica la conformità agli standard, normativi e aziendali.
Quindi si procede al blend vero e proprio, ovvero si miscelano gli oli di diverse provenienze per ottenerne uno che risponda tanto ai requisiti di legge quanto ai dettami dell'ufficio marketing.
Tutto questo lavoro deve alla fine portare un profitto.
Ovviamente, descritta così, la cosiddetta “arte del blend”, suona un po' asettica, commerciale ed è oggettivamente priva di fascino e di appeal.
Un'attività imprenditoriale come un'altra.
Difficilmente, descrivendo le cose come stanno, è possibile differenziarsi e dare valore aggiunto.
Imbottigliatori e industriali lo sanno, non si vende solo olio, si vende un'immagine, un'idea. Quella che dietro a una bottiglia da 2,99 euro/litro vi sia un artigiano, di più, un artista.
Mi chiedo solo quanto tempo passerà dall'enunciazione teorica, ovvero dalla battaglia culturale in atto, alla sua applicazione pratica, in etichetta e a scaffale.
Ora che la vecchia formula magica (“imported from Italy” e “product of Italy”) non funziona più, oppure è fortemente contestata, bisognerà pur inventarsi qualcos'altro.
L'”arte del blend” è quindi la nuova frontiera di imbottigliatori e industria olearia per sperare di recuperare le quote di mercato perdute in questi anni.
Una strategia furba che nasconde insidie e rischi.
Se infatti l'”italianità” di un extra vergine è tutta nelle mani di un blendmaster, la figura mitologica che assembla gli oli, allora le aziende straniere non dovranno far altro che acquisire questi professionisti, o le loro competenze, per avere un olio “italiano”.
L'”arte del blend” non è solo un bluff, quindi, ma può anche segnare la fine della cultura olearia italiana, consegnandola nelle mani della globalizzazione, con buona pace dei veri artigiani e artisti dell'olivo e dell'olio del nostro Paese.
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19 luglio 2015 ore 08:26Caro Breccolenti,
quello che Lei chiama l'ultimo tassello della qualità (comunicare la qualità al consumatre) è un compito dell'imprenditore.
Il produttore-imprenditore di olio di oliva deve convincere il consumatore (anche una piccola nicchia di consumatori) ad acquistare il suo olio; allora potrà dire che è un olio di qualità.
Altrimenti l'imprenditore è un presuntuoso egosita che vule imporre una sua idea di qualità. Nel settore dell'olio di oliva ci sono molti presuntuosi che sono diventati gli ideologi della qualità, che hanno prodotto un solo risultato: la morte dell'olivicoltura italiana.
Bisogna amare la realtà, prima che la pripria idea.
Sono interessatissimo a vcedersi e a discutere di questi temi.
Amo l'olivicoltura, non amo l'ideologia della qualità.
giovanni breccolenti
18 luglio 2015 ore 11:55Sono rimasto un po' stordito nel leggere la frase " un olio vincitore di un premio che non si vende non è di qualità perchè qualità è soddisfazione del cliente".
Per me che vivo e lavoro dentro i frantoi, in mezzo agli uliveti, che assaggio olio da venti anni ovunque, queste frasi mi fanno capire perché l'olio fatto come si deve(quindi di qualità) è in difficoltà.
Prof. Frascarelli, lavoro molto vicino al suo istituto, presso un frantoio molto conosciuto che fa degli sforzi tremendi per fare qualità e restare a galla. Ecco, ci venga a trovare, venga a vedere che cosa vuol dire qualità, quanto costa farla, come sono i prodotti ottenuti con sistemi qualitativi e quanto è importante farla conoscere al consumatore.
La qualità è una sola, è un progetto che parte dall'impianto dell'oliveto, passando per una coltivazione razionale fino alle rigide metodiche dell'ottenimento e conservazione del prodotto finale olio e per ultimo la capacità di venderlo(la fase più difficile). Poi può non piacere il prodotto ottenuto cosi(profumo pulito a prescindere dall'intensità, giustamente amaro e piccante) e piacere più qualcos'altro ottenuto con metodiche diverse e magari meno rigide, però diamo il giusto peso alle parole, il termine qualità ha un solo significato a prescindere da tutto il resto ( Che vuol dire che se una cosa non si vende non è di qualità? Non potrebbe semplicemente mancare l'ultimo tassello di quel progetto di cui parlavo prima, che è semplicemente ma il più difficile che è "la capacità di vendere qualità"?
Un saluto e a presto.
Andrea Ambrosino
13 giugno 2015 ore 19:21EGREGIO ALBERTO, LA MIA E ' LA QUARTA GENERAZIONE DI PICCOLI IMBOTTIGLIATORI DI ALTA QUALITÀ' le racconto la mia esperienza fatta molti anni fa in un modesto ma primario frantoio nel Gargano. Entro e unitamente a mio fratello con pazienza certosina assaggio ben cinquanta contenitori da duecento kg. Per un totale di cento qli. Complessivi. Presi da soli ossia assaggiandoli uno per uno a me non piaceva nessuno ossia era da bocciare l'acquisto quella mattina della intera partita. Era un momento di mercato difficile dissi in mente mia cosa devo fare . Chiusi comunque l'affare e ci accingemmo a caricare l'intera partita in una autobotte nostra di cento qli. A cari azione ultimata ossia dopo aver fatta massa unica prelevai un campione massa e le posso assicurare che a distanza di due ore dopa aver assemblato tutto ossia facemmo il suo citato e criticato blend venne fuori un autentico capolavoro ossia un prodotto eccellente che io non credevo ai miei occhi e al mio palato.morale della favola l'arte del blend e ' una vera arte e la sanno fare in pochi perché assaggiatori si nasce e si tramanda di padre in figlio e le assicuro e ' fatta in piena onestà e rispetto delle leggi vigenti in materia. La saluto con stima e cordialità.
LAURA CARRER
13 giugno 2015 ore 03:28Vou escrever em português, pois vivo no Brasil. Acho que essa história de Blend e' a saida para o mercado do olio de oliva. O Brasil e o maior produtor de cafe do mundo....de uns anos para ca' o mercado interno entendeu essa teoria do blend e começamos a ter bom cafe. A Italia não produz um só grão de cafe e para o mundo tem o melhor cafe ou seja a arte do blend levada ao seu extremo, gerando lucros e empregos! Porque essa teoria não pode ser aplicada ao EVO? Não concordo com o Dott. Alberto, podemos ter qualidade mesmo sendo BLEND, visto que o consumo esta' aumentando e a Italia nunca produziu o que consome.... Não e' jogada de marketing, mas uma questão de sobrevivência, alias muito inteligente !
Luca Paolo Virgilio
27 gennaio 2015 ore 00:17Mi sento di sottoscrivere i commenti di quanti mi hanno preceduto.
Affermare che "qualità è soddisfazione del cliente" è molto riduttivo. Se così fosse, per analogia si potrebbe affermare che la Coca Cola è la migliore bevanda al mondo (pare infatti fatturi più dell'intero comparto vinicolo globale). Oppure, sempre per analogia, che i politici eletti siano i migliori possibili.
Conclusioni del genere suonano giustamente grottesche, eppure derivano inevitabilmente da un pensiero del genere.
E' indubbio che la soddisfazione del cliente concorra a definire la qualità - e, di converso, il cliente è soddisfatto se percepisce la qualità.
Il punto sta proprio lì, nella differenza tra realtà e percezione, soggettività e oggettività.
Il mio palato può apprezzare allo stesso modo un vino "convenzionale", magari fatto industrialmente su larga scala, e il vino di un vignaiolo che magari non usa alcuna pratica invasive in cantina e coltiva uve senza prodotti sistemici. Ciò non toglie che un vino che subisce decine di processi chimico-fisici per essere "corretto" o reso "conforme" ai gusti presunti dei consumatori non potrà mai essere paragonato, qualitativamente parlando, a un vino che è prodotto di sole uve sane e sapienza artigiana.
Il mercato funzionerebbe se i produttori avessero tutti le stesse opportunità (leggi: soldi da investire nel marketing, o di converso, niente pubblicità per tutti) e se i consumatori fossero tutti perfettamente informati. E, non ultimo, se il prezzo fosse un fattore indifferente rispetto alle scelte di acquisto.
Nella realtà, siamo ben lontani da tutte queste condizioni.
Per cui, misurare il valore di un prodotto in termini di vendite e fatturato è come valutare la qualità di un programma tv in base al numero di telespettatori.
Alberto Grimelli
26 gennaio 2015 ore 09:27Gent. Dott. Frascarelli,
il termine qualità, di per sè, ormai significa poco o nulla se non ci attacchiamo un aggettivo. Esiste la qualità percepita, la qualità intrinseca, quella nutrizionale, quella salutistica, quella edonistica e così via.
"Qualità è soddisfazione del cliente" rieccheggia la definizione data da Kuehn & Day nel 1962: "nell'analisi finale del mercato, la qualità di un prodotto dipende da quanto bene corrisponde ai modelli delle preferenze del consumatore.". Si tratta cioè della qualità percepita.
Dal punto di vista della qualità intrinseca, nutrizionale e salutistica, probabilmente, l'olio di quel produttore umbro è superiore a qualsiasi olio messo in commercio da imbottigliatori o industriali, ma queste qualità non vengono percepite dal consumatore che quindi non assegna loro alcun premio di prezzo.
Le qualità intrinseche, nutrizionali e salutistiche sono di per sè oggettive, mentre la qualità percepita è fortemente soggettiva e influenzabile.
Non voglio demonizzare l'industria. Semplicemente ribadisco che non c'è nulla di artistico nel lavorare sulla qualità percepita di un prodotto, con analisi di mercato o con panel di consumatori. Semplicemente affermo che non si tratta di arte ma di tecniche di marketing.
L'olivicoltore umbro, come tanti altri in tutta Italia, dovrà probabilmente lavorare sulla qualità percepita del proprio prodotto, raccontarlo, fare un po' di story telling, trovando quella fascia di consumatori che apprezzerà l'artigianalità del suo prodotto e le sue qualità intrinseche.
Non esiste il consumatore, esistono i consumatori.
Cordiali saluti
marco ciofetta
25 gennaio 2015 ore 19:42Caro Signor Frascarelli, dire che qualità è soddisfazione del cliente in questo contesto mi pare un po' fuorviante... viviamo in un mondo in cui i consumatori sono condizionati in maniera importante dalle strategie di comunicazione dei grandi gruppi industriali e dalla grande crisi economica che colpisce il nostro paese. La qualità di un olio artigianale prodotto con ottime olive, con macchinari efficienti e professionalità è senz'altro superiore a quella di qualsiasi olio che l'industria possa produrre, e ciò si può dimostrare anche tramite esami chimici sicuramente più oggettivi di quelli organolettici. Il problema è che il consumatore non sa riconoscere un olio al limite del commestibile da uno ottimo (a meno che non li assaggi!) e quindi acquista uno di quelli che costano meno, (tanto sono tutti oli extravergine) quindi all'olivicoltore umbro non deve dire che l'olio di qualità e quello che è più venduto, (non direi che i migliori hamburger sono quelli del MacDonald) ma che è ora che si unisca con altri produttori artigianali e inizi a fare una comunicazione efficace per spiegare che differenza c'è tra un olio da 3 euro al litro e uno da 15. Poi, come succede per i vini, ognuno si siederà a tavola con Barolo o Tavernello, secondo il proprio portafoglio e le proprie priorità...
Angelo Frascarelli
25 gennaio 2015 ore 18:21Molti imprenditori agroalimentari italiani hanno fatto blend eccellenti, creano lavoro, fanno fatturato ed eportano, da Ferrero a tanti piccole imprese locali. Ammiro e incoraggio questi imprendtori.
Non capisco coloro che fanno vane teorie sulla qualità, ma non capiscono cosa significa la parola "qualità", "consumatore", "mercato" e "impresa".
A costoro si deve la morte dell'olivicoltura italiana.
Un olivicoltore umbro mi dice: "il mio olio è di ottima di qualità, ha vinto un premio, ma il consumatore non lo compra". Rispondo: "non è di qualità, perchè qualità è soddisfazione del cliente".
Luca Paolo Virgilio
25 gennaio 2015 ore 00:02Infatti concordo con lei. L'arte non sta da nessuna parte, direi anzi che si tratta di piena mistificazione della realtà. Strategia quotidiana di qualsiasi industria che deve in qualche modo "creare" elementi di appeal altrimenti assenti.
Queste dichiarazioni hanno lo stesso valore della pubblicità che mostra Banderas lavorare farina molita a pietra e fare biscotti in casa. Ovvero fuffa.
La domanda è: noi produttori e amanti della piccola scala abbiamo qualche "arma" per difendere quell'idea di unicità e artigianalità da chi tenta indebitamente di appropriarsene?
amedeo de franceschi
24 gennaio 2015 ore 17:57corriere della sera di venerdi 23 gennaio....
Alberto Grimelli
24 gennaio 2015 ore 17:38Sig. Virgilio, nei comunicati stampa di Assitol (associazione degli industriali dell'olio aderente a Confindustria) è sempre citata l'arte del blend, come caratteristica distintiva dell'industria olearia italiana (http://www.teatronaturale.it/pensieri-e-parole/associazioni-di-idee/20405-assitol-e-federolio-garantiamo-noi-olio-di-qualita-sulle-tavole-degli-italiani.htm).
Il presidente di Assitol, Giovanni Zucchi, è tanto assiduo nel promuovere questa formula da averci scritto anche un libro e da averne fatto un vero e proprio marchio di fabbrica (http://www.italiaatavola.net/articolo.aspx?id=37793; http://www.italiaatavola.net/articolo.aspx?id=37500).
Nei comunicati stampa di Assitol si accosta anche di quanto in quanto l'idea di arte del blend all'artigianalità.
L'insistenza con cui Assitol e il suo presidente Giovanni Zucchi ripropongono l'arte del blend mi fa ritenere si tratti di una precisa strategia. La stessa in atto da parte di Ferderalimentare (Federazione dell'industria alimentare italiana) da tempo: non importa da dove venga la materia prima, è la "sapienza" italiana a rendere il prodotto apprezzato dal mercato.
Il concetto di "sapienza" può essere condivisibile, con alcuni limiti, quando la materia prima in qualche modo viene lavorata, ad sempio la produzione di formaggi da latte straniero.
Nel caso dell'olio non c'è neanche questo... allora dove sta l'arte?
Buon fine settimana
amedeo de franceschi
24 gennaio 2015 ore 17:06Si può leggere a pag. 37 del Corriere della Sera un ottimo intervento sull'arte italiana del saper fare blend...Un piccolo estratto...significa saper miscelare, come per vino e caffè, le varie tipologie di oli. ...Peccato che per il vino e caffè si parte dalle materie prime e non dal prodotto estratto per fare i blend.
Luca Paolo Virgilio
24 gennaio 2015 ore 15:59Articolo molto puntuale, ma sarebbe bello sapere chi sta utilizzando quella formula. Da dove è nata? Chi l'ha proposta? Lo si può dire?
giovanni breccolenti
19 luglio 2015 ore 12:46Lo ribadisco con forza, l'olio del produttore che non riesce a vendere è di qualità perché c'è un gruppo di esperti assaggiatori che lo ha assaggiato e lo ha premiato(dire il contrario senza tante spiegazioni puo' voler dire che quel gruppo che lo ha valutato è incompetente). La sua affermazione finale è stata perentoria e senza spiegazioni: non è di qualità quel prodotto per il solo fatto che è invenduto non che è incapace chi lo dovrebbe vendere(il problema è questo e dal suo articolo non trapelava questa cosa ma posso sbagliarmi).
Vero è che un ottimo produttore di olio potrebbe non avere le stesse capacità nella vendita di un olio di grande qualità come è quello del produttore premiato.