Cultura 15/01/2011

Argentina Altobelli e la campagna nel cuore

Il ritratto di una bella figura femminile del sindacalismo agricolo, vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento. Era profondamente convinta che per avanzare sulla strada delle conquiste sociali e politiche bisognava coinvolgere nelle lotte anche le donne. Il racconto di una vita nel limpido e arricchente saggio di Alfonso Pascale




Argentina Altobelli è una delle più splendide figure femminili che siano esistite tra Ottocento e Novecento. Nata a Imola nel 1866, morì a Roma nel 1942. Dirigente socialista con Filippo Turati e Anna Kuliscioff, fondò il sindacato dei lavoratori agricoli e anticipò le battaglie per l’emancipazione delle donne. Fu segretaria nazionale della Federterra dal 1905 al 1922 quando i gerarchi fascisti la fecero allontanare da Bologna dove aveva sede l’organizzazione sindacale. Qualche tempo dopo, Mussolini, che l’aveva conosciuta personalmente in gioventù, la fece chiamare per proporle di dirigere il sindacato agricolo fascista. Ma lei oppose un netto rifiuto e preferì affrontare nella miseria gli anni che le restavano da vivere.

Il suo primo impegno nel sindacato fu rivolto alla difesa dei diritti delle mondariso e dei giornalieri avventizi, le due categorie più umili dei lavoratori della terra, “le formiche erranti più numerose – per usare una espressione a lei cara – che non hanno mai la sicurezza del pane”. Argentina Altobelli era profondamente convinta che per avanzare sulla strada delle conquiste sociali e politiche bisognava coinvolgere nelle lotte anche le donne, occupandosi prima di tutto dei loro problemi. Da qui la costante attenzione alla difesa dei diritti civili dei contadini e dei loro figli, dalla casa ai servizi sociali e all’istruzione, e l’impegno costante per ottenere già in quegli anni una legge che permettesse il divorzio.

Partendo dall’originario nucleo bracciantile padano, la dirigente sindacale guardò sempre con grande attenzione al Mezzogiorno, organizzando convegni sui temi dell’emigrazione interna e della colonizzazione in Sardegna e in Basilicata e iniziative di lotta contro la disoccupazione in Puglia, Calabria e Sicilia. Nel 1908 si precipitò a Messina per partecipare alle attività di soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto e per questa sua azione ottenne una menzione speciale da parte del governo. Nel 1915 organizzò nei locali di Roma della Cassa Nazionale Infortuni (l’Inps attuale), che lei aveva contribuito a fondare, una clinica di fortuna per accogliere ed assistere una parte dei feriti nel terremoto della Marsica.

Intensificandosi i fenomeni migratori prima verso l’Argentina e poi verso gli Stati Uniti, fu la Federterra, più di ogni altro sindacato di categoria, a svolgere una funzione di tutela e di assistenza a favore degli emigranti, persino con accordi di sindacalizzazione coi paesi di arrivo.


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La nascita e il radicamento dell’organizzazione sindacale nelle campagne italiane s’inserivano nel più vasto e grandioso moto di emancipazione delle masse contadine in Europa, in America e in Australia. E come avvenne in Italia, anche in altri paesi e regioni, dal Canada alla Danimarca fino all’Andalusia, questo processo fu guidato essenzialmente dai socialisti.

E’ stato, dunque, per primo il movimento socialista a far sì che i contadini rompessero le proprie catene non più attraverso la jacquerie, come era avvenuto nei secoli precedenti da Spartaco fino al brigantaggio post unitario, ma organizzandosi in moderne strutture partecipative. In Canada, il partito della “Nuova Democrazia”, aderente all’Internazionale Socialista, nacque come partito delle cooperative rurali. In Danimarca, il tessuto cooperativistico, che tuttora caratterizza la totalità del settore agroalimentare danese e ne fa il tratto fondamentale della sua forza economica, è opera dell’impegno che profuse già negli ultimi decenni dell’Ottocento il partito socialdemocratico di quel paese.

Anche in Italia, le origini del movimento socialista furono rurali e l’impegno di questa forza politica si espresse non solo nel campo cooperativistico e nella gestione degli enti locali, ma soprattutto nella costruzione di un ramificato tessuto sindacale nelle campagne. Quel processo di sindacalizzazione era l’esito non solo e non tanto delle lotte per i miglioramenti salariali e di orario, ma soprattutto delle iniziative per strutturare il collocamento. La Federterra ambiva, in sostanza, ad esercitare una sorta di monopolio nel collocamento della manodopera, obiettivo che le avrebbe consentito di detenere le chiavi del mercato del lavoro. Argentina Altobelli considerava, infatti, la disciplina del collocamento l’elemento determinante della strategia sindacale, anzi “la salvaguardia di ogni conquista”.

La costruzione del sindacato agricolo era, dunque, tutt’uno con la nascita e lo sviluppo dei servizi attraverso i quali passava il flusso di manodopera e della pratica di imporre al datore di lavoro l’assunzione di coloro che man mano venivano scelti sulla base di una graduatoria precedentemente stilata. E’ da queste esperienze maturate nei primi decenni del Novecento nelle campagne italiane che nacquero il principio della richiesta numerica, l’organizzazione delle strutture del collocamento e le forme di tutela previdenziale, su cui si esercitò nel secondo dopoguerra l’azione riformista nelle campagne.

Si trattava, in definitiva, di un sindacalismo fortemente e meticolosamente strutturato e istituzionalizzato: più dell’azione di controllare il salario, il problema fondamentale era quello di ripartire le scarse occasioni di lavoro. Il modello era per certi versi analogo a quello che in altri paesi, e solo in parte in Italia, si sviluppava sul terreno economico del mercato dei prodotti agricoli, mediante la costruzione di una meticolosa ed estesa rete associativa dei produttori, volta a controllare tutto lo spazio entro cui si realizzavano e si realizzano lo scambio delle materie prime e le fasi della trasformazione e commercializzazione degli alimenti.

Sia sul versante del lavoro e dei diritti civili che su quello dei prodotti agricoli, settori importanti del movimento socialista del primo Novecento anticipavano contenuti e strumenti dello Stato sociale, del protezionismo agricolo e delle condizioni civili e sociali, dalla casa al diritto di famiglia e al divorzio, che sarebbero diventati oggetto di importanti riforme, conquistate con l’iniziativa di massa nel secondo dopoguerra.


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Ricordare Argentina Altobelli e gli albori del sindacalismo agricolo deve indurre a riflettere su quanto avviene oggi nelle campagne italiane alle prese con la globalizzazione e le crisi economica, climatica ed energetica: si è in presenza di gravissimi problemi di disorganizzazione nelle filiere produttive, nel mercato dei prodotti agricoli e nei sistemi territoriali e di una debolezza cronica del potere contrattuale dei produttori. A questi fenomeni, negli ultimi tempi, sono venuti ad aggiungersi lo sfruttamento degli immigrati, a volte anche nelle forme raccapriccianti dello schiavismo, che non permette di cogliere le opportunità derivanti dai flussi migratori su scala planetaria, e il fenomeno dell’antagonismo miope e devastante tra modelli culturali agricoli, che impedisce un loro reciproco rafforzamento mediante l’interazione virtuosa nell’ambito dello sviluppo territoriale.

Ma a questo punto non si può eludere una domanda che sorge spontanea: perché agli inizi del secolo scorso la creazione di una grande rete protettiva nelle campagne, fortemente istituzionalizzata nelle relazioni contrattuali, nei servizi di collocamento e nell’organizzazione e valorizzazione dei prodotti agricoli, ebbe una grande funzione di sviluppo civile e culturale e accompagnò la nascita e l’espansione del riformismo socialista; mentre oggi siamo in presenza di un sindacalismo che, per certi versi, è parte esso stesso della crisi dell’agricoltura e dei territori rurali?

La risposta non è semplice e non può non partire da una riflessione seria sulle modalità con cui le organizzazioni sindacali e professionali hanno gestito, dagli anni Settanta in poi, le conquiste dello Stato sociale e della politica agricola comune (PAC). Anziché utilizzare i successi per creare trasparenza nel mercato, riduzione delle iniquità, riconoscimento di capacità e meriti delle persone, delle imprese e delle realtà associative, le organizzazioni hanno preferito orientare le normative ei flussi di risorse pubbliche, spesso distorcendone le finalità, per alimentare le proprie strutture a prescindere dai reali benefici per i propri associati e per la collettività.

Che altro senso può avere che l’Europa continui ad erogare forme di sostegno al reddito agricolo in una visione assistenzialistica e corporativa e mai come legittimo e misurabile corrispettivo di un bene pubblico indipendentemente dalla condizione professionale di chi lo produce? Che altro può significare che ancora oggi l’INPS continui a riconoscere l’indennità di disoccupazione a chi dichiara di aver lavorato per 51 giornate in agricoltura - soglia minima che si riduce addirittura a quattro giornate nei periodi in cui si verificano condizioni di maltempo - quando è a tutti noto che la maggior parte dei cosiddetti “cinquantunisti” non ha nulla a che vedere con l’attività agricola?

Eppure si tratta di enormi risorse che, anziché continuare a produrre ingiustizie e iniquità, potrebbero essere orientate verso ben più giustificabili obiettivi: generare beni pubblici, come il paesaggio agrario e la biodiversità; perseguire lo sviluppo rurale; rafforzare gli strumenti e i servizi che accrescono il potere contrattuale dei produttori nel mercato; integrare gli immigrati nelle aree a rischio di spopolamento, dotandoli di competenze, terra, credito agevolato e servizi civili.

Per cogliere lo spirito originario della costruzione delle reti sociali, civili ed economiche, che ha pervaso l’impegno politico e sindacale di figure come Argentina Altobelli e del movimento socialista a cavallo tra Ottocento e Novecento, e così creare effettive opportunità di crescita e tutele diffuse, le forze politiche e sociali che intendono ereditare quella nobile tradizione devono saper intercettare le aspettative di libertà degli individui e di tenuta solidale delle comunità, riconoscendo il merito, la fiducia, la reciprocità e la responsabilità come i nuovi ingredienti dell’eguaglianza, valorizzando l’iniziativa di singoli e di associazioni per il bene comune e concependo la soddisfazione di un bisogno primario non più come un atto assistenziale ma un’opportunità di sviluppo.

Si tratta, in sostanza, di combattere a viso aperto le pretese corporative e i privilegi degli insiders e di quelle burocrazie sindacali che su di essi si alimentano in modo autoreferenziale e, al tempo stesso, di riconoscere i meriti, i comportamenti che producono fiducia e responsabilità, le pratiche di mutuo aiuto e di reciprocità, il valore delle pari opportunità per i giovani e per le donne, nonché i bisogni dei soggetti più deboli, verso cui orientare non più misure assistenziali derivanti da politiche redistribuitive sempre più residuali, ma azioni di sviluppo, che facciano leva sulla valorizzazione di capitale umano, conoscenza, beni relazionali e risorse territoriali.


di Alfonso Pascale