Cultura 08/01/2011

L’oste, l’amico, il lago

Si inizia a bere cercando la leggerezza, uno stato di grazia a metà tra immobilità assoluta e voglia di girovagare con i propri pensieri. Quale miglior inizio d’anno se non con la prosa di Nicola Dal Falco? Nel racconto “Una pesca lariana”, un’atmosfera suggestiva e terribile


Una pesca lariana

Nicola Dal Falco

Sulla statale, i lampioni brillano tenui, avvolti in un globo di minuscole gocce di umidità. Una traiettoria di luci che si interrompe appena fuori dal Paese.
Vie di stelle come in cielo, stanotte più vuoto con una luna magra che è già tramontata.

Due, tre, quattro, cinque – li puoi contare – poi entri nella galleria, fai venti passi e giri a sinistra, scavalchi il guard-rail, scendendo per un viottolo infiorato da pacchetti di sigarette e lattine.

Non c'è quasi onda e il lago rimugina tetraggine nel suo corpaccio di balena. Si va ad agoni col quadrato.
Tempo ideale per svaligiarne la riva, fare il pieno mentre sono in frega ed è vietato.

“Cala lì, accanto al sasso”.
“Più a destra ... ancora”.
“Guarda quanti sono, come girano in tondo, dietro alle femmine. Sembra un serpente. Appena ripassano sopra, tira”.
“Certo, ne becco quattro o cinque al volo”.
“Ora... ora”!
“Calma, rieccoli”.
“Bravo, così”.
“Quanti sono?”
“Tre. Tre!”
“Metti nel secchio”.

Passano venti minuti, la pesca è buona. Una quarantina di agoni sono passati dall'acqua al quadrato che li ha scodellati sui sassi della riva, sempre immobile come il bordo di uno stagno.
L'oste e il suo amico cominciano a sudare.
Quella che provano è, forse, vera felicità: intera, fisica, senza limiti o convenzioni.

Acciuffare agoni in barba ai guardiapesca, quando l'estro li spinge all'appuntamento con il più organizzato dei predatori scatena l'ebbrezza che assomiglia a quella provocata dal vino.
Si inizia a bere cercando la leggerezza, uno stato di grazia a metà tra l'immobilità assoluta e la voglia di girovagare con i propri pensieri.

Basterebbe camminare un po' da soli ma, si sa, il vino è la zattera dei pigri.
Fanno eccezione i navigatori estremi come Noè che ai gradi alcolici si affidò per mettere a fuoco alcune tremende deduzioni.

Prima che l'allegro versare trasformi l'ebbrezza in sbornia e il corpo da navicella in chiatta di piombo, il dolce interregno, amico delle confidenze, dei gesti fraterni e di quelli impudici spiana la via ad una più profonda comprensione.

Per un certo tempo, i due emisferi cerebrali lavorano in sintonia e, curiosamente, le idee che nascono sembrano avere mani e piedi, sono afferrabili, forti e soprattutto docili; i concetti che faticavano a formarsi appaiono di colpo evidenti come il chiodo nel muro o la lettera tanto attesa.

Anche i doppi nodi, finalmente, lasciano intravedere il segno bluastro che mortificava la carne.
Nel migliore dei casi sarà proclamata la pace o la guerra e un energico massaggio allevierà il prurito. Momenti benedetti, imparentati con tutti i minuti di gioia e di stupore.


***


“Ancora, un altro ancora... che magnata” – gli occhi dell'oste brillano quanto quelli di un gatto appena una delle rare automobili, imboccando la curva alla punta di Morcate, spazza con gli abbaglianti la riva.
Per un attimo, la superficie del lago diventa opalescente come se dal fondo salisse una tiepida, bianca corrente lattea.

“Presi, acchiappa qua. Dai, forza...”.
“È pieno il secchio – aggiunge l'oste – stavolta, accontento anche il Nico”.

Altre forme argentate, nuotando strette, trasformano il fondo verdastro in uno specchio infranto.
Guizzano gli agoni per impellente, generosa necessità verso la trappola e nella corsa trovano un'aria dura da respirare.

“Ehi, ma quello cos'è?” – chiede l'amico indicando un chiarore nell'acqua, a venti metri di distanza.
“Dove”? – risponde l'oste con un soprassalto.
“Là, a sinistra, verso Menaggio, una luce che sale e scende”.
“Sarà un sub”.
“Cristo, è più grosso, più lungo”.
Una forma filante, iridescente, avanza, compie brevi virate, tornando, poi, al punto di partenza. E' uno zigzagare dolce che ricorda il tango al rallentatore.

“Ostia, i pesci! Sono spariti tutti”. Incredulo, l'amico si mette a camminare su e giù. Dall'asta pende inerte il quadrato, sbatte e gocciola come un organo incontinente.
“Ma che succede?” – sussurra l'oste.

Una brezza scesa dal Grömm porta con sé i sospiri del bosco. L'acqua da liscia, specchiante, diventa un velluto che si ombra toccandolo mentre la luce sommersa, mobile e misteriosa, continua a ciondolare davanti ai due pescatori. L'oste trova la forza di fare tre passi in avanti, inzuppando la punta delle scarpe di corda. È la prima volta in sessantacinque anni che si bagna volontariamente. Non si è mai sciacquato neanche le mani nel lago, figurarsi a entrarci con i piedi.
Troppo profondo il lago per berlo a cuor leggero e troppo incassato tra valli e montagne per nuotarci allegramente come fa la gente al mare.

“La pinna ... guarda... beata vergine»”
A qualche metro di distanza emerge come una falce la punta della coda, verde e oro, trasparente, cosparsa di venature sottili, con su disegnato un globo nero dentro un cerchio più grande.

Quando è tutta fuori dall'acqua, le macchie diventano due, due occhi che fissano la scena, in cima ad un robusto collo squamoso.
Quello che sembra lanciare è uno sguardo senza confini, parente del buio. Ora si muove anche più flessuosa, con un certo vezzo.
I due amici ricordano appena perché sono lì, di notte, con le braccia e le gambe flosce.

Scrutano la coda che li abbaglia, la pensano intensamente mentre una sincera ammirazione prende il sopravvento sulla fifa.
Alla domanda pressante che continuano a porsi, il loro cervello li rinvia l'immagine che hanno di fronte. Non c'è, è chiaro, risposta sensata, ma al tempo stesso se mettessero in dubbio l'incredibile evento, la visione potrebbe scomparire e il lago inghiottire quella cosa esagerata.

Sono attimi solenni, quasi festosi, se avessero la forza di urlare.
Il dondolio della pinna fuori dall'acqua li ha catturati e avvinti in una strana attesa.
Ecco, che, piano piano, la coda ritorna sott'acqua e a destra affiora un'anca, un braccio, la testa. Fa un giro completo e quando si trova nel punto più vicino a riva, si solleva puntando le mani sul fondo.

Dal lago esce la schiena, la chioma corvina, gomiti e braccia d'avorio. Con un colpo lentissimo appare, poi, la fronte, il bianco folgorante degli occhi e del sorriso, i seni pieni e incapricciati, l'ombellico scolpito.

I due avrebbero voglia di scappare, scrollandosi la rigidità che li attanaglia.
Eppure la sirena – non si può più fare a meno di chiamarla così – ha un'aria dabbene.
Si è anche seduta sul fondo e così messa, riesce a nascondere completamente l'estremità di pesce.
Sa che è la metà viscida e oscena a tenerli discosti, la stessa che prima li ha inchiodati alla propria curiosità.
Il più vicino è l'oste, nel suo campo visivo c'è lei, il lago scuro e oltre, la sponda opposta, remota con le sue luci tristi da baraccone.

La sirena muove le labbra e come per sollecitare un segno di assenso, ad ogni frase più lunga, morde il labbro inferiore ma solo su un lato così che ne nasce una smorfia intensa e bella.
Ora che può guardarla meglio, l'oste ammira le sopracciglia lunghe, setose e tonde, gli zigomi alti e pronunciati.
Il naso, invece, gli sembra eccessivamente lungo, con una lieve sporgenza subito sotto l'attaccatura.

Avrebbe giurato di trovare una fossetta sul mento ma il mento non è spartito né a punta. Le labbra hanno la consistenza dei pezzi di vetro smussati dalla risacca. Una piega, che l'oste subito attribuisce all'età, orna all'ingiù i lati della bocca.
Su un altro dettaglio si ferma appena, solo per constatare che le orecchie ben sagomate terminano con dei lobi carnosi. Sotto la ciocca di capelli, aveva creduto che pendessero due grosse perle. Nonostante il silenzio, nessuno dei due riesce a intendere cosa dica la sirena né ha sufficiente coraggio per chiederle di parlare più forte.

A rompere l'incantesimo ci pensa l'uomo con il quadrato ancora in mano e lo fa dopo aver abbondantemente deglutito ed essersi ricacciato in gola una serie di avverbi e improbabili convenevoli.

“Secondo me – esordisce con una frase che parte a raffica – è circa tre metri”.
“Cosa dici?” – risponde trasognato l'oste.
“Si – incalza – è lunga due e sessanta, due...”.

Nell'orto vicino abbaia il cane ma senza convinzione.
“Senti, così seduta – spiega l'oste – ... da ... da ... insomma dall'ombellico in su sono, occhio e croce, un metro e settanta, un metro e ottanta”.
“Certo ... certo – replica sarcastico l'altro – compresa la coda quattro metri scarsi. È alta quanto il balcone del comune”.
“Il solito pirla. Ma se sei così sicuro – il tono è di sfida – perchè non glielo domandi. Vediamo se ti risponde”.
“E bravo, magari, mi tira addosso la sorte”.
“Te la fai sotto!”
“Vacci tu, vicino”.



***



Come se avesse seguito il battibecco, la sirena mostra la lingua fino in fondo, cerca di coprirsi gli occhi con il braccio e sorride, sorride inondando il petto di luce.
Di fronte a un simile spettacolo tra l'infantile e il provocante, l'oste e l'amico riacquistano fiducia: il tentativo di seduzione anche se escogitato dall'esemplare di una razza mostruosa giunge a segno.

Per trarsi d'impaccio, l'amico lascia il quadrato, che non aveva abbandonato un istante e si ficca le mani in tasca mentre l'oste fa finta di contare le stelle.

Soddisfatta del risultato, la sirena riprende, immediatamente, il filo del discorso su un tono appena udibile. Le parole ancora non si distinguono ma la cadenza è dolce, avvolgente.

“Insomma, cosa vuole quella lì?” - scatta l'amico.
“Proprio non si sente”. - risponde l'oste.
“Ehi, alza di più la voce, non capiamo”. – insiste l'altro.

Pur avvertendo la nuova aggressività, la sirena non smette, continua a dire, a ripetere la sua insondabile verità.
Forse, quelle che corrono sul filo del respiro non sono parole di una lingua arcana; la bella bocca non nasconde un segreto ma la richiesta implicita di un gesto, qualcosa che ristabilisca la complicità, un piccolo segno di dedizione come chinarsi e accostare l'orecchio.

In fondo, lei è salita apposta dagli abissi del lago e della notte.
Nel frattempo, il suo sguardo si è come velato, i due non capiscono e la coda, prima immobile, ha ripreso la sua danza felina. Imprigionati in uno stato di tensione, vedendo la pinna alzarsi ed abbassarsi, l'oste e l'amico si lasciano prendere da un insano furore.

“Scappa, scappa.... Se ne vuole andare”.
“Sei pronto ad acchiapparla?”
“Si...”.

Il primo che le è addosso è l'amico, cerca di abbracciarla ma sbatte il petto contro un sasso.
Per il dolore si rialza di scatto ricevendo in pieno un potente sganassone. La pinnata lo colpisce tra la mascella e l'orecchio.
Il tonfo che segue è lo stesso di una scialuppa piombata a mare. L'oste che mirava alla coda non riesce neanche a sfiorarla; la vede levarsi e scattare contro il compare.
L'attimo di ritardo gli evita di finire lungo disteso con la faccia in fiamme ma per la fretta di allontanarsi inciampa e cade in acqua, seduto.

La sirena, intanto, ha tirato su la testa nuotando a pelo d'acqua; con le braccia lungo il corpo e il mento in fuori sembra la polena di una veliero. Il colore del volto è terreo, i capelli, un viluppo di radici, attirano il buio e i denti appaiono radi e appuntiti come lische.

“Fissa l'immagine della paura – gli dice con voce ferma – nel panico trarrai l'energia necessaria. Bevi fino in fondo il tuo spavento ma guarda oltre. Dal canneto spingi la barca veloce verso la corrente, di vortice in vortice, dentro e fuori le onde fino al mandorlo in fiore. Che scocchi la scintilla chiusa nel frullino, sfregando il legno d'acacia contro il fico. Torovacca sarai se entri nel vaso”.
L'oste, impietrito accanto al compagno che si lamenta, non apre bocca.

Capisce poco del discorso ma ha l'impressione che ogni parola, pronunciata dalla sirena, gli stia scavando dentro una nicchia con l'intenzione di rimanerci.
Come quando si cerca il sonno, distesi al buio, allo stesso modo la mente dell'oste registra un fiume di immagini che appena nominate, vengono sommerse da altre che incalzano.
Questa sensazione di piena gli rimane appiccicata a lungo, anche dopo che la testa galleggiante si è allontanata, scomparendo sott'acqua, senza il minimo rumore.
Da quella terribile notte, l'oste è rimasto frastornato e ferito nella favella.

I pensieri hanno continuato a nascere e a voler uscire in suoni intellegibili ma altri suoni fanno breccia, traboccano lasciando stupiti gli interlocutori.
Per l'amico è forse peggio oltre a un violento mal di testa e a un principio di otite, puzza da vomitare di alghe marce. Nessun sapone riesce a coprire durevolmente il tanfo di lago e di morte.

Illustrazione di Nicola Dal Falco