Salute

UNA PIATTAFORMA D'AZIONE PER COMBATTERE L'OBESITA'

Si tratta di un dramma sociale che non riguarda solo gli Stati Uniti. Anche in Europa cresce a dismisura il numero dei bambini obesi: siamo a un ritmo di quattrocento mila l'anno. Sono inoltre più di duecento milioni gli europei in sovrappeso. Ora si tenta di correre ai ripari, cercando di predisporre uno specifico programma di interventi. Presentiamo una utile riflessione di Alfonso Pascale sul tema

16 aprile 2005 | Alfonso Pascale

La Commissione Europea ha istituito una piattaforma d’azione per combattere l’obesità, divenuta ormai una vera e propria epidemia, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel nostro continente. Il numero dei bambini obesi cresce al ritmo di 400 mila all’anno. Più di 200 milioni di europei sono in sovrappeso. L’oncologo Umberto Veronesi sostiene che nel 30 per cento dei casi il cancro sia dovuto all’eccessiva alimentazione, e solo nel 4 per cento allo smog.

Si sono riuniti a Bruxelles i rappresentanti dell’industria alimentare, della distribuzione e della ristorazione, nonché le organizzazioni dei consumatori e del settore sanitario per predisporre interventi volontari in più direzioni: dalla diffusione di nozioni dietetiche all’autoregolamentazione della pubblicità ed alla promozione di attività fisiche.

In verità, l’allarme era già stato lanciato agli inizi degli anni Novanta. Tant’è che i governi hanno speso ingenti risorse nel promuovere campagne informative sull’alimentazione, che però non hanno avuto successo. Decine di esperti hanno tentato di spiegarci quale fosse la modica quantità di calorie da assorbire per stare bene, la proporzione virtuosa tra grassi saturi e quelli insaturi da non sballare nei nostri pasti, l’apporto di proteine da prelevare dai legumi, la quota ideale di carboidrati, di vitamine e minerali da assumere per ridurre il rischio di ammalarci. Si sono sfornate montagne di depliant. Sicché la capacità di alimentarci in modo equilibrato è stata trasformata in un’astrazione numerica, in complicate tabelle che indicano il fabbisogno giornaliero di macro e micronutrienti per età, per genere e per sport praticato. Disquisizioni e nozioni che si sono rivelate completamente inutili, forse applicate paradossalmente solo dai bulimici per dosare meglio le proprie abbuffate. Ha continuato, invece, ad imperversare il linguaggio suadente della pubblicità delle imprese alimentari.

Non ha avuto alcun seguito un documento redatto da scienziati di punta ed esperti di politica sanitaria che si ritrovarono a Pechino nel 2001. Fu l’occasione per concordare un approccio del tutto nuovo alle linee guida alimentari e alla loro comunicazione. Il programma fu battezzato Eat Wise (Mangia Giusto). Esso si basa sugli stili alimentari salutari della tradizione mediterranea e orientale, ed è facilmente adattabile a tutti i paesi e a tutte le culture del mondo. Eat Wise non prescrive ma descrive il cibo, le bevande e gli stili di vita delle popolazioni che godono buona salute. Si rivolge alle famiglie per dare consigli, approfondire temi connessi al cibo, invitare a riprendere il contatto coi processi produttivi agricoli, a prepararsi il cibo da soli quando si è in condizione di farlo, a riconsiderare gli aspetti culturali del cibo.

Tale impostazione non è mai decollata. Si è fatto altro. L’industria alimentare europea ha continuato ad interpretare la responsabilità sociale d’impresa esclusivamente come impegno nella diffusione di stili di vita meno sedentari. L’ultimo gadget natalizio di alcune imprese era il pedometro, un piccolo apparecchio che si lega al polso o alla vita per misurare i livelli di attività fisica. Opera meritoria, per carità, ma che non dovrebbe spettare ai fabbricanti di cibo.

Anche i ministri europei della salute hanno preferito dedicarsi ad altro: criminalizzare oltre misura i grassi animali. Molti comuni hanno, inoltre, obbligato le mense scolastiche a rifornirsi in modo esclusivo di costosi prodotti biologici, ritenendoli impropriamente più sani degli altri, a detrimento della varietà dei cibi da offrire ai bambini.

I fautori della Repubblica terapeutica - quegli stessi, per intenderci, che si oppongono a qualsiasi norma che consenta ad un malato terminale di esprimersi, direttamente o mediante una persona cara, se sottoporsi o meno a cure palliative - pensano di combattere l’obesità con le stesse armi con cui si lotta contro il tabagismo. Tra un po’, troveremo stampati sulle confezioni dei cibi ritenuti a rischio enormi semafori rossi, con scritte cubitali Chi mi mangia muore! E c’è già chi pensa di tassare gli alimenti a forte contenuto calorico così come avviene per i superalcolici. Nelle università, nei municipi, nelle biblioteche pubbliche, i distributori automatici dispenseranno solo cibi considerati sani. E milioni di persone saranno costrette a mangiare di nascosto per difendersi dallo stigma di una società sempre più bacchettona.

Dappertutto sono disponibili bilance che ci indicano la massa corporea ideale. E chi disgraziatamente scopre di aver superato la soglia di sicurezza cade in uno stato ansioso portatore di ulteriori disturbi. Del resto, a documentare per primi in termini statistici una correlazione fra l’aumento di peso e il maggiore rischio di mortalità precoce non sono stati i medici, ma i grandi istituti assicurativi americani. Con l’avvento dei computer è stato facile evidenziare un rapporto fra il peso corporeo degli assicurati e la loro mortalità. E ciò ha indotto gli istituti ad aumentare le polizze di assicurazione sulla vita per i soggetti obesi. Ora tale controllo è esercitato su di noi, in modo generalizzato, dalla Repubblica terapeutica, con la motivazione di allungarci la vita e, contemporaneamente, di dover contenere i costi sanitari a carico della collettività. Ma con l’effetto non secondario di generalizzare la paura dell’obesità e di trasformare la maggiore speranza di vita in una condanna allo stato ansioso cronico. Non conta più l’aspirazione ad una migliore qualità della vita, a fare qualcosa di buono nel corso della propria esistenza. Adesso ci si accontenta di congelare lo status quo biologico, inseguendo l’utopia di un’immortalità terrena che non è certo a portata di mano.

Un storico dell’alimentazione, Paolo Sorcinelli, in un bel libro di qualche anno fa Gli italiani e il cibo, descrive il tentativo del regime fascista di accompagnare la politica alimentare autarchica con l’educazione a ridurre cibi come la carne, il pane bianco, lo zucchero e l’alcol, sostanze considerate nocive alla razza in quanto “alimenti antifisiologici, apportatori di malattie e di morte”. Seguendo il modello dietetico propugnato dal regime, la “nazione” avrebbe conseguito in un solo colpo il triplice obiettivo di “privilegiare i prodotti nazionali, conservare la salute fisica e contribuire all’incremento demografico”. La Repubblica terapeutica ha trovato validi supporti nei totalitarismi del Novecento. Ed ora si avvale del fondamentalismo salutista.

C’è un’alternativa a tutto questo? Una prima misura dovrebbe essere quella di ampliare la platea dei soggetti sociali da coinvolgere nelle azioni volte a prevenire e contenere l’obesità. Accanto ai fabbricanti e ai distributori di cibo, alle organizzazioni dei consumatori e ai medici, è bene che ci siano anche gli agricoltori, il mondo della scuola, gli operatori sociali, il mondo della cultura, dagli storici ai gastronomi, dagli antropologi agli uomini di cinema e di lettere. Si tratta di predisporre progetti che affrontino i nodi culturali del problema, costruendo un rapporto tra le nuove generazioni e, in generale dei cittadini, con la campagna, le attività produttive che in essa si svolgono, la cultura agricola e rurale che le informano e il sapere gastronomico dei diversi territori. Promuovendo tra le famiglie che vivono in città i gruppi di acquisto solidale per approvvigionarsi direttamente presso le aziende agricole o le imprese artigianali del luogo. Favorendo le filiere corte tra produttori e consumatori. Sviluppando una rete di fattorie sociali, intese come centri di aggregazione nelle aree rurali a servizio di cittadini che intendono ricollegarsi con le proprie radici.

L’obesità, al pari della fame, la si combatte promuovendo lo sviluppo locale, poggiato in primo luogo sulla valorizzazione del capitale umano e sociale. Aprendo una nuova stagione di diritti di libertà, fondata su una più diffusa cultura alimentare, rapporti più diretti tra produzione e consumatori, regole più severe contro la pubblicità ingannevole, norme che incoraggino un’etichettatura più completa in riferimento all’origine dei prodotti e dei processi produttivi adottati. L’obesità, al pari della fame, la si combatte sviluppando la ricerca e la sperimentazione nel settore delle biotecnologie, sia per difendere meglio i prodotti tipici dal rischio di estinzione, sia per rendere davvero più sicuri gli alimenti. In definitiva, gli Stati dovrebbero riconoscere che dipendiamo gli uni dagli altri solidalmente e non vi è alcun bisogno di invadere la sfera della nostra libertà individuale. Sarebbe necessario che ci offrissero, questo sì, un quadro di regole e di opportunità in vista di uno sviluppo umano sostenibile.

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