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L'olio d'oliva “imported from Italy” ha i giorni contati sugli scaffali americani
Filippo Berio patteggia e la dicitura “imported from Italy”, su blend non 100% italiani, scompare dalla bottiglia perchè inganna il consumatore statunitense. I trucchetti con cui le nostre aziende olearie hanno campato per anni non funzionano più. Onda lunga del passato o effetto Trump poco importa. Occorre ripensare la nostra presenza sul mercato a stelle e strisce
27 gennaio 2017 | Alberto Grimelli
Per anni le aziende olearie italiane hanno venduto olio d'oliva, miscele di diverse provenienze, con indicazioni come “Imported from Italy”.
Importato dall'Italia non vuol dire prodotto in Italia e nella controetichetta è chiaramente indicato che si tratta di una miscela di oli europei o extraeuropei.
Tutto in regola dunque.
Non secondo Rohini Kumar, cittadina statunitense, che ha citato Salov per violazione del 1930 Tariff Act, 19 U.S.C. § 1304, l'equivalente del nostro illecito per pratica ingannevole o pubblicità ingannevole.
Dire “Imported from Italy” fa supporre che l'olio contenuto lì dentro sia italiano e non solo che l'olio è transitato dall'Italia, previo imbottigliamento. Questa la tesi, tra le altre, con cui nel 2014 ha intentato causa al colosso Salov North America Corp and Italfoods, Inc, 137 milioni di dollari di fatturato nel 2015, gran parte col marchio Filippo Berio.
Nel corso del dibattimento, e in particolare nel 2016, i legali di Salov hanno proposto diverse istanze per cercare di far annullare il processo, tra cui un tentativo di ricusazione del giudice Yvonne Gonzalez Rogers del distretto federale nord della Corte della California. Tutti questi tentativi sono stati respinti.
E' allora che sono cominciate le trattative per un accordo giudiziale, una sorta di patteggiamento, per uscire dal processo con i minori danni possibili.
Solo che i danni non sono così irrilevanti, soprattutto sul piano dell'immagine per l'azienda ma soprattutto per le ricadute che potrà avere sull'intero sistema oleario italiano.
Salov infatti si è impegnata, per almeno tre anni, a togliere dalle etichette di Filippo Berio l'indicazione ingannevole “Imported from Italy”, sostituendola con la più generica “Imported”.
Nessun riferimento all'Italia, insomma, se l'olio non è 100% italiano.
Salov si impegna anche a versare 50 centesimi di euro a bottiglia, per ogni consumatore certificato (ovvero che abbia prova dell'acquisto) che abbia comprato una bottiglia di Filippo Berio dal maggio 2010 al giugno 2015.
Infine Salov rifonderà agli avvocati di Rohini Kumar circa un milione di dollari di spese legali.
La fine di un'epoca
Probabilmente non si tratta ancora di un effetto Trump ma dell'ultimo atto di un processo innescato con i primi scandali sull'olio italiano negli Stati Uniti, qualche anno fa.
Come insegna il caso Volkswagen, se scoperti, certi trucchetti si pagano, e anche parecchio, sul mercato americano. Là non vige il diritto romano, con le sue mille sfaccettature e le diverse angolazioni da cui si può vedere una norma. Il limite invalicabile non è deciso da una virgola di una legge ma dall'opinione del consumatore che vale anche nelle aule dei trinunali.
Bisogna riconoscere che per anni abbiamo venduto sul mercato americano olio mediocre, border line, quando non apertamente frutto di una frode.
In questi ultimi anni gli americani, anche grazie a italianissime inchieste, hanno scoperto come li abbiamo preso in giro e, come era lecito aspettarsi, non l'hanno presa bene.
Hanno anche scoperto i mezzucci al limite della legalità, come è oggettivamente l'”Imported from Italy”, per cercare di conferire un valore aggiunto e un premio di prezzo a dell'olio che invece è molto commerciale e standard. Hanno scoperto che gli oli primo prezzo sono “costruiti” attraverso miscele di oli vergini, di più bassa qualità, con extra vergini. Un rispetto formale, ma non sostanziale e di principio, delle norme e del buon senso.
Già da qualche anno ci stanno dicendo che questi comportamenti non sono e saranno più tollerati. Lo slogan “America first” del Presidente Donald Trump probabilmente non farà altro che accelerare questo processo.
Possiamo urlare il nostro sdegno per il pollo al cloro, possiamo condannare l'Italian sounding, possiamo denigrarli come analfabeti gastronomici, possiamo insultarli e provare a restituire gli schiaffi che ci arrivano.
Resta un dato: siamo noi a voler esportare negli Stati Uniti 130 mila tonnellate di olio d'oliva.
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