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State lontani da questo libro e dall'autore, portabandiera dell’anti-robinsonismo

Nel romanzo di Mariano Bàino l’uomo avanzato non è l’uomo progredito, come si potrebbe pensare, ma l’uomo che, divenuto un avanzo, è da buttar via

06 dicembre 2008 | Sossio Giametta

Napoli ha un fondo plebeo, un fondo arretrato. Ma, come se prendessero slancio dopo aver toccato il fondo, ci sono napoletani stratosferici. Uno lo incontrai decenni fa, un Frankenstein giovane, autore di un romanzo di fantascienza, I popoli, che, con il successivo I nemici, anticipava chiaramente il futuro scontro di civiltà e la futura era di crudeltà e terrorismo. Era Giuseppe Di Costanzo, ora professore all’università di Napoli e semi-espatriato a Berlino.

Un altro, incontrato in anni più recenti, è Michele Serio, dalle attività disparatissime: musica, teatro, giornalismo, finanza, viaggi; famoso in Francia per i suoi romanzi, che non devono essere detti pulp perché hanno anticipato il pulp, che in Pizzeria inferno prefigura in chiave grottesca Gomorra (ora è uscito La dote, Flaccovio, di cui speriamo di poter dire in un prossimo articolo).



Un terzo - il mio spavento più recente - è Mariano Bàino.
Bàino è un personaggio di spicco nella cultura napoletana che si avvia a divenirlo anche nella cultura nazionale. Che cosa poteva fare Bàino per far accettare la sua stratosfericità? Buttarla in poesia, perché si sa che solo al poeta è permessa ogni follia. Nur Narr, nur Dichter, diceva di sé Nietzsche, solo matto (o giullare o buffone), solo poeta, non Freier der Wahrheit, non pretendente della verità, non filosofo (e imparino qualcosa quelli che vogliono vederlo sempre e solo come filosofo, addirittura come un filosofo la cui oggettività e il cui rigore non sono inferiori a quelli di Aristotele, come ha sballato, ahilui, Heidegger).

Dunque solo matto, solo poeta, il nostro Mariano. Ma non quando dirige la collana di poesia affidatagli da Francesco del Franco (Bibliopolis), ché qui le scelte sono magari impervie, ma sempre ponderate, oculate, rigorose. Con questa collana Bàino si procura un attestato di normalità, grazie al quale si lancia poi a capofitto nelle imprese più pazze. Come per esempio in questo romanzo appena pubblicato da Le Lettere, L’uomo avanzato (pagine 140, € 19). Esso, quanto a stranezza e audacia, dà dei punti ai libri di poesie più azzardati.

Già il titolo lascia interdetti. Perché l’uomo avanzato non è l’uomo progredito, come si potrebbe pensare, ma l’uomo che è divenuto un avanzo e dunque è da buttar via, cosa che alla fine accade. Solo che quello che qui è avanzato, nel senso che nessuno ne sente più il bisogno, è l’Uomo stesso con la sua umanità, in una civiltà che è sempre più schiacciata su standard robotici, impersonali e lontani dall’umano. Sicché l’eccedenza che resiste non trova altra via che il cammino a ritroso (“A ritroso”, in senso diverso da quello di Huysmans, poteva essere un altro bel titolo), il rientro nell’animalità. Solo che l’animalità, che una volta avevamo, che una volta eravamo, ormai non è più recuperabile: “So che la creatura marina che un tempo fui è al di là di una frontiera”.

La storia sarebbe una Robinsonade, come Marx chiamava le storie che prendevano a modello il Robinson Crusoe di Defoe (Remo Ceserani le elenca nella dotta postfazione). Solo che Roberto Crusca, designer e progettatore di aeroporti, showroom ecc., è un anti-Robinson, nel senso che mentre Robinson, ridotto in solitudine, era salvato dalla sua umanità, cioè dalle risorse che l’umanità rappresenta per chi ne fa parte, Roberto Crusca fa il contrario, si spoglia sempre più di tutto ciò con cui la vita ricopre “il terribile testo homo natura”, fino a dissolvere il testo stesso, perché esso, senza ciò che lo rivestiva, senza le “molte vanitose e fantasiose interpretazioni e significazioni aggiuntive che sono state finora scarabocchiate e spennellate” sopra di esso, ossia senza la sua umanità e socialità, non è più niente.
Diciamo che dopo Robinson un altro precedente di Crusca è il signor Palomar di Calvino, che nel bel mezzo della società resta solo con le sue sensazioni e l’ininterrotto ruminìo del monologo interiore.

Nel bel mezzo di una crociera, che ricorda un po’ il Titanic, Roberto Crusca cade in mare. Si rifugia su un’isola costituita da quattro isolotti, che egli esplora senza mai trovare niente di interessante, o meglio senza mai trovare interessante quello che trova: una caverna in cui ripararsi dai tremendi temporali, lo scheletro di un soldato giapponese rimasto a far la guerra anche dopo la fine della guerra, il relitto di una canoa ecc. Gli unici richiami del mondo normale sono la moglie e una cameriera sexy. Finché ha forza, soffre comunque per la mancanza della vita associata. Poi la progressiva chiusura interna alla vita si traduce in un lento disgregamento della sostanza di cui la sua vita è fatta, in un processo faticoso e penoso dal quale il lettore viene sgradevolmente colpito e coinvolto.

È un romanzo pauroso, corredato di foto prive di senso, che assumono un senso minaccioso. Esse sono ottenute con la tecnica del foro stenopeico, consistente nel praticare un forellino su scatole di latta con dentro carta fotosensibile. Alle foto sono mescolate illustrazioni più riconoscibili, ma non più rassicuranti, del grafico e pittore Gianfranco De Angelis. Una limitata chiarezza viene dalla postfazione. Bàino maschera la mostruosità della vicenda offrendo in appendice uno schema ludico, Tino Naufraghino, che dovrebbe servire di esercizio ai bambini. Non ci cascate! È solo un’altra mostruosità condita di ironia. E se non vi va di sperimentare in voi stessi, da adulti e non da embrioni, ontogenesi e filogenesi, le stranezze e metamorfosi, una dopo l’altra, del ritorno all’animalità, che non può avere altra conclusione che l’autodistruzione, state lontani da questo romanzo e da Bàino, portabandiera dell’anti-robinsonismo.

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